La sentenza del principe di Metternich, «l’Italia è un’espressione geografica», non era una battuta sprezzante, bensì una constatazione. All’atto del Congresso di Vienna, il Regnum Italiae d’origine longobardo-carolingia rivendicato a partire dalla metà del X secolo dagli imperatori sassoni e arrivato almeno formalmente fino alla pace di Presburgo del 1806 non c’era più, mentre quello napoleonico era stato cancellato. Nessuno dei due, del resto, aveva mai incluso il centro-sud della penisola, quello che dal XII secolo era stato il regno prima normanno, quindi svevo, angioino, aragonese, asburgico e infine borbonico. La penisola italica non disponeva quindi allora, né aveva mai conosciuto, alcuna compagine unitaria sotto il profilo politico: ma conosceva (conosce) altre forme di unità? Non certo quella storica. I Greci avevano attribuito il nome di Italia, un etimo a quel che pare osco, all’Italia meridionale; in età romana, la parola risalì dal Meridione gradualmente della penisola fino alle Alpi, senza tuttavia mai significare altro che una realtà circoscrizionale. Il policentrismo storico-culturale italiano è per sua natura centrifugo: si danno culture regionali dotate di profonda complementarità con culture extra-italiche e poco o nulla affini a quelle italiche vicine. La Sicilia si spiega attraverso i mondi greco, punico, bizantino, arabo-africano, spagnolo; sono state Grecia, Bisanzio e Spagna a conferire un tono semiunitario alla cultura del Sud continentale; la realtà culturale della costiera ligure s’intende meglio confrontata con la Corsica, la Provenza e la Catalogna che non col suo entroterra; il Piemonte è indecifrabile separato dalla realtà burgundo-alamanna; il mondo adriatico nel suo insieme resta dimidiato se non viene posto in rapporto con quello balcano-danubiano. Due fonti molto differenti tra loro valgono forse a rendersi conto di quanto sia difficile cogliere storicamente e anche linguisticamente gli elementi unificanti della penisola. La prima è di tipo araldico e si è organizzata definitivamente nel XVI secolo. Essa riguarda l’Ordine ospitaliero nato ai primi del XII secolo attorno alla chiesa di San Giovanni Battista in Gerusaleme e divenuto nel Cinquecento prima di Rodi, poi di Malta. Esso si organizza in otto circoscrizioni "nazionali", che tuttavia non ricalcano gli Stati nazionali moderni bensì i sistemi linguistico-nazionali dell’Europa occidentale: Castiglia, Alemagna, Inghilterra, Aragona, Italia, Francia, Alvernia, Provenza. Tali circoscrizioni sono difatti detti "Lingue". È da notare che la "Lingua d’Alemagna" raccoglie i Paesi d’idioma germanico continentale con le immediate pertinenze balto-finniche, mentre la penisola iberica è distinta in due "Lingue" (il Portogallo è associato alla Castiglia; Navarra, Galizia, Paese Basco e Catalogna all’Aragona) e la Francia addirittura in tre (Francia propriamente detta, Alvernia che ricalca l’antico Delfinato e Provenza che comprende tutti i Paesi occitani a nord dei Pirenei). Questa tormentata geografia linguistico-nazionale riflette adeguatamente il laborioso processo di concrezione di quel che Massimo Cacciari ha molto adeguatamente definito "l’Arcipelago Europa": ma s’incontra, in sette casi su otto, con un’identità abbastanza precisa, espressa difatti da un non meno esplicito segno araldico. Solo nel caso dell’Italia gli araldisti giovanniti si sono trovati a mal partito: e, non essendo riusciti a trovare un simbolo unificatore, hanno preferito ricorrere alla parola "Italia" ricamata in lettere gotiche dorate e posta in banda su un campo nero. Un colore che forse rimanda alle origini benedettine (o agostiniane?) dell’ordine, radicate a quel che sembra nel territorio amalfitano e nel rapporto con l’abbazia di Cava de’ Tirreni; ma che è forse anche un non-colore, un’assenza, l’incapacità di assegnare alla penisola anche un valore simbolico-cromatico che tutta la rappresenti. La seconda fonte, il
De vulgari eloquentia fu composto da Dante, secondo la datazione comunemente accettata, fra 1303 e 1305 circa e rimasto incompiuto. Andando alla ricerca della «
decentior atque illustris Ytaliae loquela» identifica sul piano linguistico lo spartiacque idiomatico nell’Appennino ed enumera almeno quattordici differenti idiomi "volgari" ciascuno dei quali conosce molteplici varietà, addirittura nel medesimo centro urbano. Tanto la semiafasia simbologica degli araldisti dell’ordine di Malta quanto il vigoroso ma fallito tentativo dantesco di costruire una tassonomia dialettologica d’Italia scolasticamente rigorosa, in effetti, riconducono alla complessità della storia geo-demografica della penisola e all’assenza di un suo centro unificatore. Sembra quindi legittimo affermare che sono state la molteplicità delle situazioni locali, le frequenti rotture del suo tessuto istituzionale e lo stratificarsi delle dinamiche politiche a far emergere una realtà policentrica e municipalistica che ha sostanzialmente raggiunto un equilibrio dopo le "guerre d’Italia" del primo Cinquecento per venir rimessa in discussione solo alla fine del XVIII secolo, quando con la campagna d’Italia del generale Bonaparte si aprì la fase che avrebbe condotto, oltre un sessantennio più tardi, all’unità. Vi sono tuttavia almeno due elementi da tener d’occhio in modo speciale per rendersi conto della dinamica italica tra IV e XVI secolo, vale a dire nel millennio e più che intercorre tra le scelte di due imperatori che hanno potentemente influito sulle vicende della penisola. Alla fine del IV secolo, la spartizione teodosiana dell’impero assegnava totalmente l’Italia alla
pars Occidentis: tuttavia, i ricorrenti tentativi romano-orientali di riappropriarsi in tutto o in parte della penisola e le relative guerre combattute tra VI e VIII secolo dai Bizantini contro Goti e Longobardi, nonché la difficile coesistenza con i Franchi, ribadivano quella distinzione in un’Italia tirrenica e una adriatica che anche Dante, secoli più tardi, avrebbe riscontrato persistente. Ulteriori elementi di tensione sarebbero stati quelli relativi allo scontro tra
imperium e
sacerdotium nei secoli XI-XIII, con l’emergente questione dell’eredità che Matilde marchesa di Toscana aveva lasciato alla Chiesa di Roma e che l’impero contestava mentre l’avventura normanna riusciva dal canto suo a unificare il Meridione peninsulare e la Sicilia – una realtà che, attraverso i molti passaggi dinastici, avrebbe condotto senza sostanziali soluzioni di continuità al 1860 –, l’affermazione delle
libertates comunali nel Centro-nord e la lotta egemonica sul mare tra Genova, Pisa e Venezia che s’incrociava con al dinamica economico-commerciale e con la contesa talassocratica contro Arabi e Bizantini, che le città marinare italiane vinsero decisamente nel Duecento.Il braccio di ferro tra le città centrosettentrionali per il controllo del territorio, dei mercati e delle vie di comunicazione, favorito dall’eclisse dei poteri papale e imperiale nel corso del Tre-Quattrocento, condusse al consolidarsi di Stati territoriali – Milano, Venezia, Firenze – che, prima con la pace di Lodi del 1454 e quindi con il pur laborioso raggiungimento di un equilibrio franco-asburgico a metà Cinquecento, avrebbe assicurato all’Italia una sostanziale stabilità. La penisola, passata la tempesta napoleonica, si presentava in tal modo non disadatto al conseguimento di un’unità federale parallela a quella che, nei medesimi decenni, andava imponendosi in Germania: era la soluzione alla quale, in modo diverso, guardavano il Gioberti e il Cattaneo. La convergente dinamica dell’espansionismo piemontese, dell’attivismo dei gruppi "democratici" neogiacobini e delle preoccupazioni conservatrici dei ceti dirigenti e abbienti della penisola imposero invece la soluzione unitaria.