Israele come il Sudafrica. Con i palestinesi portabandiera di una lotta all’apartheid che – alla fine – non potrà non fare breccia anche nelle stanze della diplomazia internazionale. E con gli stessi Stati Uniti costretti a ritirare il loro sostegno, come già accaduto con Pretoria. A riproporre lo schema – per la verità non poi così nuovo – è stato recentemente Noam Chomsky, il celebre linguista sostenitore 'senza se e senza ma' della causa palestinese, in un articolo rilanciato in Italia da
Internazionale. Intervento apparso proprio mentre in Sudafrica divampava una polemica per certi versi speculare: quella di alcuni esponenti della locale comunità ebraica contro l’arcivescovo Desmond Tutu, icona della lotta all’apartheid. A loro si deve infatti una petizione contro il presule 'reo' di sostenere attivamente la campagna internazionale per il boicottaggio degli insediamenti ebraici in Cisgiordania. «Uno così – sostengono i firmatari della petizione – non può stare nel Comitato del Johannesburg Holocaust and Genocide Center». Sono due storie che ripropongono un’annosa questione: si può davvero accostare il caso di Israele a quello del Sudafrica? Apartheid è la parola giusta per descrivere la condizione degli arabi nello Stato ebraico? O si tratta solo di un ' format ', di un’immagine forte che veicola emozioni più che rappresentare una realtà?Di quest’ultima opinione è assolutamente il sociologo Paolo Sorbi, attento osservatore della realtà di Israele. «È un paragone che può stare in piedi solo grazie a una verità paradossale: il crescente isolamento internazionale di Israele – attacca Sorbi –. Perché l’accostamento col Sudafrica è aberrante: Israele non è un Paese che produce apartheid. Sociologicamente è un classico esempio di stereotipo e pregiudizio». Però – obiettiamo – è un fatto che all’interno della società israeliana il fattore etnico sia un tema sempre più caldo. Si discute di idee come il 'giuramento di lealtà', che condizionerebbe lo status di cittadini all’accettazione dell’identità ebraica dello Stato... «Proprio pochi giorni fa – risponde Sorbi – sul
Jerusalem Post sono stati pubblicati i risultati di una ricerca da cui emerge ancora una volta che, se fossero costretti a scegliere, appena il quaranta per cento degli arabi-israeliani vorrebbero finire sotto lo Stato palestinese. Ed è logico: per loro vorrebbe dire tornare indietro non solo a livello di benessere economico, ma anche di effettiva libertà. Altro che apartheid. Quanto poi al giuramento di lealtà e alle altre tesi di questo tipo, ciò che non si dice mai è che gran parte della società israeliana è contraria... Certo – aggiunge ancora il sociologo –, i problemi tra arabi ed ebrei ci sono: ma li assimilerei più a questioni di carattere sindacale, normali rivendicazioni di gruppo all’interno di una società».Neanche Janiki Cingoli – il direttore del Centro italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo), che da tanti anni opera per mettere in contatto tra loro politici ed esponenti della società civile israeliana e palestinese – condivide l’analisi radicale di Chomsky. «Israele è un Paese che non è nato su basi razziali, ma nazionali – osserva – e quindi in sé il paragone con il Sudafrica non è pertinente. Tuttavia è vero che oggi registriamo derive nuove imputabili sia all’estremismo religioso ebraico sia al nazionalismo di partiti come Yisrael Beitenu [il partito dell’attuale ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, ndr]. Penso al caso dei rabbini che ritengono immorale affittare una casa a un arabo. Ma anche all’altro appello recente, quello delle loro mogli che hanno invitato le ragazze ebree a non dare appuntamenti a ragazzi arabi. Sono segnali preoccupanti. Va anche detto, però, che Israele ha gli anticorpi per reagire dall’interno a questo tipo di posizioni».Non significa, però, che l’esperienza sudafricana non stia insegnando qualcosa ai palestinesi. «Già nel 1984 – ricorda Cingoli – Sari Nusseibeh, il rettore dell’Università al-Quds, in un’intervista che pubblicammo su
Rinascita suggeriva la via sudafricana. Diceva che i palestinesi avrebbero dovuto optare per l’annessione dei Territori a Israele e poi lottare in maniera pacifica perché fossero loro garantiti gli stessi diritti. Con gli anni del Processo di Oslo sembrava un’idea superata. Ma ora Nusseibeh ha ripreso a parlarne». Altro tema è quello del boicottaggio. «Una cosa è quello indiscriminato dei prodotti israeliani, che è inaccettabile – sostiene il direttore del Cipmo –. Un’altra è quello selettivo di ciò che viene prodotto negli insediamenti. Questo secondo per me è un modo legittimo di aumentare la pressione internazionale su questo tema».Ma quando Chomsky evoca un passo indietro degli Stati Uniti, come accaduto con il Sudafrica, parla di una prospettiva realistica? «Il rischio c’è – risponde Sorbi – ed è parte di quel gravissimo disimpegno dell’Occidente nei confronti di Israele di cui parla da tempo Fiamma Nirenstein. Il problema di Barack Obama non sono le singole scelte in Medio Oriente, ma la mancanza di una comprensione storica di che cosa rappresenta Israele». «Non credo che gli Stati Uniti arriveranno mai a considerare Israele uno Stato razzista – sostiene invece Cingoli –. Ma certo, soprattutto dopo il fallimento di questi ultimi mesi, la possibilità che Washington allenti un po’ i vincoli c’è. Che poi questa cautela sia la premessa di un disimpegno o di un cauto riposizionamento è da vedersi». C’è infine anche chi – partendo sempre dal paragone tra Israele e il Sudafrica – prova a mischiare un po’ le carte, cercando di trasformarlo in un’opportunità. È il caso di Windows, un’Ong israeliana che dal Sudafrica ha importato a Tel Aviv l’idea vincente di
Moloshongololo, la rivista attraverso cui ragazzi di etnie, lingue e culture diverse prima ancora che cadesse hanno aprirono una finestra di comunicazione nel mondo dell’apartheid. Dal 1995 anche in Israele e Palestina Windows prova a fare la stessa cosa attraverso i ragazzi delle scuole. «Il paragone con il Sudafrica è interessante, ma va maneggiato con attenzione perché questa non è la stessa la storia – commenta la fondatrice Rutie Atsmon –. Quando abbiamo fondato la rivista prendendo a modello
Moloshongololo l’idea era quella di mettere in comunicazione ragazzi che oggi in Israele e in Palestina non hanno altre strade per parlarsi, ascoltarsi, scoprire analogie e differenze, imparare che si può sperare in un futuro migliore. Oggi stiamo studiando soprattutto il processo di riconciliazione in Sudafrica. Perché è vero che la riconciliazione potrà avvenire solo quando l’occupazione e l’oppressione saranno finite; ma per arrivarci davvero dobbiamo preparare i nostri giovani a vedere il futuro di una vita insieme e a lavorare concretamente perché succeda davvero».