Su islam e libertà Mustafa Akyol ha idee molto chiare: «Spesso si sente ripetere che ci sarebbe bisogno di un Martin Lutero musulmano – dice –. In realtà quello che ci servirebbe oggi è un John Locke: un riformatore della società, non della religione». Nato nel 1972, Akyol è un intellettuale turco capace di rivolgersi con uguale efficacia tanto al pubblico del suo Paese quanto a quello internazionale. Le sue analisi si trovano su “Star”, uno dei quotidiani più diffusi di Istanbul, come sul “New York Times” o sul “Wall Street Journal”. E un suo saggio di qualche anno fa (
Islam Without Extremes, “L’islam senza estremismi”, pubblicato dall’anglosassone Norton) ha suscitato un vivace dibattito per la proposta di un ritorno alla lettura originaria del Corano improntata alla tolleranza, all’emancipazione della donna, alla promozione della libertà in ogni campo, dal pensiero filosofico all’imprenditoria. Non è la provocazione di un intellettuale secolarizzato: Akyol è un credente e non fa nulla per nasconderlo. Ma proprio per questo si oppone al rigorismo insensato e violento dell’islamismo radicale. Martedì sarà a Milano, per partecipare all’incontro su media e meticciato promosso dalla Fondazione Oasis (vedi box). «Nessun Paese musulmano gode di una libertà di espressione paragonabile a quella dell’Occidente – ammette –. Ma queste limitazioni non hanno necessariamente una motivazione di natura religiosa. In alcuni casi si tratta, in modo assai più semplice, di regimi autoritari i cui leader non gradiscono le critiche, specie quando vengono amplificate dai media. Questo però accade in Russia e nessuno, per quanto ne sappia, imputa alla Chiesa ortodossa la responsabilità degli interventi di censura messi in atto per compiacere il presidente Putin».
Nelle sue riflessioni i parallelismi con cristianesimo ed ebraismo sono molto frequenti: come mai?«È uno stratagemma che uso per farmi capire meglio dai lettori occidentali, ma anche un atteggiamento dettato da considerazioni più profonde. In generale, penso che le nostre religioni possano imparare molto l’una dall’altra. In passato, per esempio, i cristiani si sono combattuti e uccisi in nome delle divisioni dottrinarie. Ora non accade più, perché le diverse confessioni hanno conosciuto una serie di riforme che hanno permesso di mettere in dialogo tradizione e modernità. I musulmani dovrebbero guardare con grande attenzione a questo processo: in questo momento, infatti, siamo noi a combatterci e ucciderci a vicenda. Ma questo non significa che siamo costretti a farlo per sempre. Si può cambiare, è possibile evolvere in una dimensione di tolleranza e convivenza, proprio come ha fatto il cristianesimo».
E perché non accade?«Molti musulmani sono convinti, a torto, che la libertà sia un valore esclusivamente occidentale e quindi estraneo all’islam. Un equivoco che nasce dall’ignoranza di una tradizione che, al contrario, è ricchissima, tanto da aver influenzato in modo determinante lo stesso pensiero europeo. Ci vorrebbe un John Locke musulmano, d’accordo, ma prima ancora sarebbe il caso di riscoprire i grandi autori dell’islam medievale: Averroè, al-Farabi, gli altri rappresentanti di
ahl al-ray, il “popolo della ragione” che nei secoli immediatamente successivi alla predicazione di Maometto si oppose con forza al nascente integrismo».
Che però oggi sembra prevalere, non trova?«Prendiamo il caso delicato della blasfemia. Un conto è riconoscere che un musulmano, al pari di ogni credente, può essere turbato da immagini o affermazioni irrispettose della sua fede, ma trasformare queste offese in un reato, che comporta pene corporali se non addirittura la pena di morte, è tutt’altra questione. Ed è, a mio parere, un segno di debolezza. Ancora una volta ci viene in soccorso l’esperienza storica: il massimo splendore del mondo musulmano coincide con i secoli di maggior libertà intellettuale. La stagnazione, invece, va di pari passo con l’affermarsi di interpretazioni sempre più rigide, che portano alle aberrazioni di cui la cronaca riferisce ogni giorno. L’islam del XXI secolo non ha bisogno di maggior libertà per venire incontro alle richieste dell’Occidente. Ne ha bisogno per se stesso, per ritrovare le sue radici e la sua autenticità».
Quale ruolo svolgono i media in questo processo?«Un ruolo di straordinaria rilevanza: questo è evidente a tutti noi, quale che sia il Paese o il contesto in cui viviamo. I media, però, hanno un problema. Preferiscono le cattive notizie alle buone. Tendono a insistere sulle posizioni estreme, favorendo una polarizzazione che, in ambito religioso, risulta terribilmente pericolosa. Per mia esperienza so benissimo che in Europa e negli Stati Uniti l’atteggiamento dominante è improntato al rispetto e alla tolleranza, ma può essere sufficiente una notizia di segno diverso, rilanciata con enfasi da media di area araba o musulmana, per confermare la convinzione di una persecuzione ai danni dell’islam. Trovare una soluzione non è facile, ma moltiplicare le occasioni di dialogo e di incontro resta comunque una risorsa preziosa».
E i social media?«Non più tardi di qualche giorno fa il Governo turco ha imposto un blocco temporaneo a Twitter e YouTube, prendendo a pretesto la diffusione delle immagini relative al sequestro del giudice Mehmet Selim Kiraz. La condivisione di foto e video veniva così automaticamente interpretata come un’azione di sostegno nei confronti della formazione terroristica responsabile dell’aggressione. Una semplificazione che non rende giustizia del complesso tema etico sottinteso alla vicenda e che, una volta di più, non ha alcun legame con l’islam. Questo episodio di censura, infatti, si inserisce nel clima di crescente autoritarismo riscontrabile oggi in Turchia, non è altro che un modo di mettere a tacere ogni tentativo di opposizione. Dal mio punto di vista non approvo tutto quello che accade sul web, ma non per questo ritengo giusto limitare la libertà di espressione che la rete consente».