giovedì 13 gennaio 2011
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Le difficoltà di molti cristiani del Medio Oriente e dell’Asia che vivono in Paesi musulmani, le limitazioni del diritto di culto, le uccisioni di cristiani in Iraq, l’uso della Blasphemy Law come strumento per limitare la libertà religiosa in Pakistan, l’atteggiamento anti-cristiano di gruppi fondamentalisti musulmani in Oriente e in Occidente ed altre situazioni simili hanno aperto da noi il dibattito sulla concezione che il mondo musulmano ha dei diritti umani e in particolare della libertà religiosa. Se ci si rifà al momento della promulgazione della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo del 1948, non è difficile notare che furono pochi gli Stati con popolazione a maggioranza musulmana che parteciparono fin dall’inizio alla sua elaborazione e che molti aderirono alle Nazioni Unite solo più tardi e si trovarono perciò obbligati a ratificarne in qualche modo il contenuto, spesso con una generica adesione di principio presente nelle loro costituzioni. Inoltre sono rari i Paesi che hanno ratificato e firmato l’insieme degli accordi, protocolli e convenzioni che ne esplicitano il contenuto e gli conferiscono valore giuridico. È noto, infatti, che a suo tempo l’Arabia Saudita si astenne dal voto definitivo, poiché rifiutava l’articolo 18 che riconosce la libertà di coscienza, compresa quella di cambiare religione. Ma la cosa che più sorprende è il fatto che il mondo musulmano abbia voluto esprimere in maniera totalmente autonoma una propria concezione dei diritti umani tramite la promulgazione di «dichiarazioni» proprie quali la Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo nell’islam, promulgata nel 1981 per iniziativa del Consiglio Islamico per l’Europa, e la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo nell’islam approvata al Cairo il 4 agosto 1990 dai Ministri degli Esteri dei 45 Stati che aderiscono all’Organizzazione della Conferenza Islamica. Nei due testi la questione della libertà religiosa viene affrontata in maniera diversa, anche se non è difficile rilevare il comune sostrato. La Dichiarazione di Parigi esprime, infatti, la salvaguardia delle minoranze religiose, affermando che «la condizione religiosa delle minoranze è fondata sul principio coranico: "Non c’è costrizione nella religione" (Cor. 2, 256)» (art. 10), e sottolinea che «ogni persona ha il diritto di pensare e di credere, e di esprimere quello che pensa e crede, senza intromissione alcuna da parte di chicchessia» (art. 12), citando poi la frase coranica: «A voi la vostra religione, a me la mia» (Cor. 109, 6). Tuttavia ad essa aggiunge un’affermazione che rende tutto il discorso ambiguo: «Fino a che rimane nel quadro dei limiti generali che la Legge islamica prevede a questo proposito. La Dichiarazione del Cairo d’altro canto afferma che «l’islam è la religione della natura dell’uomo» (art. 10), sottintendendo con ciò che va applicato ancor oggi per i non musulmani il «regime di minoranze protette» (dhimma). Si lascia così immutato il quadro classico della shar’îa nell’ambito dell’organizzazione della società e si prendono le distanze da una visione egualitaria del pluralismo religioso e dalla laicità dello Stato, che è un principio fondante per molti Stati moderni. In fondo, questi testi si rifanno alla visione della libertà religiosa ad intra e ad extra sviluppatasi nel mondo musulmano con l’evoluzione della scienza del diritto che ha limitato, col passare del tempo, la libertà di dibattito e di opinione, assai ricca nei primi secoli, all’interno dell’islam stesso e presente, anche nella sua forma apologetica, negli incontri con esponenti delle altre religioni. Con l’avvento della modernità e il nascere degli Stati nazionali, il desiderio di coesione tra le varie espressioni della società ha portato molte nazioni a maggioranza musulmana a sottolineare l’importanza della libertà religiosa e di una certa laicità dello Stato. Così è stato per il nascente Bangladesh o prima ancora con la promulgazione in Indonesia del Pancasila, anche se non sono mancati qua e là negli anni passati tentativi – come nel Pakistan di Ziaul-Haqq, nell’Arabia Saudita, in Iran e in Sudan – di riattivare nella legislazione elementi del diritto tradizionale, proprio in materia di libertà religiosa. Ma non mancano ancor oggi capi di Stato musulmani che riaffermano il principio della libertà religiosa, come ha fatto alcuni giorni or sono la premier del Bangladesh Sheikh Hasina, la quale, partecipando a una festività indù, ha dichiarato che «la laicità (dello Stato del Bangladesh) non significa assenza di religione. Significa che gli appartenenti a a tutte le religioni hanno il diritto di praticare la propria, come è rammentato nel Sacro Corano».
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