Ogni religione deve essere ripensata secolo per secolo, Paese per Paese, secondo le circostanze di tempo e di luogo. Il cristianesimo lo ha fatto e lo sta facendo, con esiti buoni o meno buoni. Così dovrebbe avvenire anche per l’islam. Il problema con i fondamentalisti è questo: dicono che il Corano è disceso dal cielo su Muhammad che lo ha trasmesso, e che il Corano è eterno. I cristiani dicono che la Bibbia è opera divina, ma attraverso strumenti umani. Quando chiedo, in un’aula universitaria mista di musulmani e cristiani, chi è l’autore della Bibbia, la risposta è automatica: «Dio». Ma perché allora diciamo «Vangelo secondo Matteo»? Che c’entra Matteo? Risposta: «Anche Matteo è autore della Bibbia. Sono due autori al 50 per cento». Passo dopo passo, arriviamo al concetto di ispirazione. Matteo è l’autore, ma lo Spirito di Dio era in lui e lo ha ispirato. I musulmani ascoltano e sono molto interessati. Poi chiedo loro: «Chi è autore del Corano?». Risposta: «Dio». Ma non abbiamo un testo firmato «Dio». Questo è il modo in cui a Beirut inizio il corso di codicologia – lo studio dei manoscritti – organizzato da quattro università. È il mio mestiere. La firma di Dio nessuno l’ha mai vista. Né il «dito di Dio» sulle tavole di pietra di Mosè. È un modo di dire, una metafora della Bibbia. È difficile ma essenziale perché, se dico che Dio ha fatto scendere quel testo dal cielo, allora significa che è intoccabile. Ed è questo il dramma con i fondamentalisti musulmani. Con i moderati si può discutere, ma un radicale dice: «No, questo insegnamento l’ha definito Dio. Dio sa ciò che è bene per noi, e dunque va osservato alla lettera». È Dio ad avere stabilito la lunghezza del vestito e del velo delle donne? Queste cose rendono il dialogo difficile.<+cap3>I<+tondo> fondamentalisti sono solo una minoranza che ovunque è attiva e allenata, e si impone sulla maggioranza. È il dramma del mondo arabo: una minoranza fanatica e radicale si impone su una maggioranza, non fanatica, con cui si potrebbe dialogare. I fondamentalisti che pretendono di parlare in nome di Dio si impongono soprattutto sulla moltitudine illetterata e non formata, disposta a lasciarsi guidare da chi «conosce meglio la parola di Dio». Ecco perché l’educazione, la formazione, è fondamentale. Ci vuole però un’istruzione che sia pensata, non recitata a memoria. In Egitto la parola araba per dire «studiare» equivale all’italiano memorizzare. Non sappiamo studiare se non a memoria: tutto il Corano viene memorizzato. Il Corano è scritto in una lingua talmente antica che servono più di 10 anni di studi per capirlo. Ma il testo è sacro e allora viene memorizzato tale e quale, e lo si recita tale e quale. Questo non aiuta a riflettere personalmente; ci vuole un’altra scuola d’insegnamento che possa far riflettere. Rimane il fatto che, sicuramente, molti di quei giovani egiziani e siriani che tutto il mondo, attraverso i media, vede nelle piazze, nutrono un ideale di giustizia e di libertà, non discriminano sulla base della religione e dicono «siamo tutti fratelli e sorelle». È lo spirito della primavera, un ideale che esiste e ha l’urgenza di germinare e fiorire, anche se la struttura della società al momento non lo facilita. È una struttura pesante che grava su di loro. Eppure la primavera araba per me rimane primavera, malgrado tutte le tragedie che abbiamo visto e che continueremo a vedere. Ci vorrà tempo, ci vorrà anche l’aiuto di tutti. Nei Paesi del Medio Oriente è facile suscitare un sogno, mentre i risultati concreti sono alquanto difficili da ottenere, perché non c’è sviluppo, c’è corruzione, eccetera. Quindi il fatto di avere alle spalle l’esperienza di un sistema che, come in Egitto, dopo un anno non dà i risultati promessi, permette di essere ottimisti riguardo al futuro, perché la gente può dire: «Ci avete promesso tanto, non abbiamo visto nulla». La difficoltà è che un simile passaggio non può avvenire in maniera rapida.Serviranno anni, forse 5 o di più, ma la presa di coscienza comincia a dare frutto. Un altro motivo di ottimismo è che il fenomeno delle primavere arabe continua a espandersi. È partita la protesta anche in Turchia, inizialmente per salvare un parco pubblico di Istanbul dal progetto di costruirvi un centro commerciale. Presto, però, si è arrivati al punto sensibile: i ragazzi sono usciti per strada con lattine di birra, le ragazze con il velo non in testa ma posato sulle spalle. Di fronte ai simboli religiosi, i giovani dicono: «Lasciateci liberi di bere ciò che vogliamo, di vestirci come vogliamo, di pregare se lo vogliamo». Insieme al centro commerciale il governo voleva costruire una moschea. Questi simboli manifestano, da parte dei giovani, la presa di coscienza che ciò che cercano è vivere meglio, non necessariamente vivere secondo le norme che qualcuno vuole imporre attribuendole alla religione. Non vogliono una società islamica, vogliono una società civile che rispetti gli esseri umani, lasciando a ciascuno la libertà di scelta religiosa.