Anche a Salisburgo la televisione trasmette le immagini di Napoli sommersa dall’immondizia. «Ma sotto la spazzatura c’è una grande forza culturale, un patrimonio che ha cambiato la storia europea e che occorre riportare alla luce. Non solo togliendo i rifiuti dalle strade». Per dire questo, per aiutare Napoli a risollevarsi, Riccardo Muti porta a Salisburgo, cuore dell’Europa di oggi, Pergolesi, Paisiello, Hasse, Jommelli, Scarlatti. «Qui nella patria di Mozart si respira aria napoletana» racconta il direttore d’orchestra, nato proprio a Napoli, che venerdì sarà sul podio dell’Orchestra Cherubini per
I due Figaro di Saverio Mercadante, opera che chiude i suoi cinque anni di direzione del Festival di Pentecoste.
Ma cosa occorre, maestro Muti, alla sua città per risollevarsi?Magari ci fosse qualcuno con in mano le chiavi per risolvere le criticità di una città che soffre di problemi gravi, per troppo tempo trascurati e a volte anche favoriti. Una città piena di scienziati, letterati, oggi come ieri, ma che non ha mai sfruttato questa ricchezza nel senso giusto. Mi auguro che oggi possa ripartire anche grazie a gente che abbia la consapevolezza di ciò che Napoli rappresenta e che sappia darle l’amore, la giustizia e l’umanità di cui ha bisogno.
Il 24 porterà l’opera di Mercadante al «suo» Ravenna festival, rassegna che stasera si apre con Claudio Abbado. Leggendaria la vostra rivalità. Oggi, però, siete nello stesso cartellone: «crescendo» si cambia?Rivalità tutta inventata. Dai fan ai quali, si sa, piace schierarsi su fronti opposti. E dai giornali che ci hanno trasformato nei Bartali e Coppi della musica. Quando sono arrivato in Conservatorio a Milano Claudio era già in carriera. E le nostre carriere non si sono mai incrociate. Anche perché due cantanti in scena insieme ci stanno, due direttori sullo stesso podio è impossibile. Ho sempre stimato Abbado che sa che nei mie anni alla Scala l’ho invitato spesso a tornare in teatro. Oggi siamo cresciuti, ma la leggenda della rivalità continua.
A luglio compirà settant’anni. Da poco è uscita la sua biografia. Tempo di bilanci?Non ne faccio mai. Non ho mai afflitto il mondo girando ogni dieci anni per autocelebrarmi con concerti e incontri. Lo trovo ridicolo. Vivo. Percorrendo quello che, sono convinto, è un cammino che prima o poi inevitabilmente si spezzerà. Un cammino nel quale si cambia, ma nel quale è importante non tagliare o rinnegare le proprie radici esistenziali ed artistiche. Io non l’ho mai fatto.
Qualche rimpianto?No. Anche se la mia è stata sempre una vita da solitario. Non ho mai fatto parte di gruppi di potere. Non ho mai avuto agenti e la mia storia l’hanno fatta le grandi orchestre che ho diretto: il Maggio fiorentino, la Philharmonia di Londra, la Philadelphia orchestra, la Scala, la Chicago symphony. Intorno a me c’è sempre stata una strana curiosità per capire come questo personaggio abbia potuto fare così tanta strada da solo. La risposta? Le mie radici italiane, il grande patrimonio appreso grazie ai miei insegnanti, umanisti e musicisti, che mi hanno formato.
L’esperienza del dolore in seguito al malore a Chicago, il fatto di scontrarsi con il limite ha cambiato il suo modo di guardare la vita?No. Anche perché noi uomini del Sud nasciamo con un profondo senso della morte. Sin da bambini siamo immersi in un clima fatto di campane a lutto, di processioni del Venerdì Santo, di Visita ai Sepolcri, di marce funebri suonate dalle bande. I problemi di salute che ho avuto di recente mi hanno fatto toccare con mano quello che so da sempre, che siamo legati a un filo e che basta un nulla perché questo filo si spezzi.
Cosa l’ha sostenuta?Il senso della speranza che mi hanno trasmesso i miei genitori educandomi nella fede cattolica. Sapere di una vita oltre la morte che, certo, ignoro come potrà essere, mi fa guardare con serenità al presente. Me lo ha insegnato la fede. E anche la musica perché quando dirigo un
Requiem, di Mozart, di Cherubini o di Verdi, quelle note mi trasportano oltre, nella dimensione dello Spirito.
Ha suscitato un vivace dibattito, specie sulle pagine di «Avvenire», la sua appassionata presa di posizione contro le «canzonette» nelle celebrazioni liturgiche.La mia non voleva essere una critica sterile. Bach e Mozart? Certo che non ci sono solo loro, ma c’è tutto un patrimonio – penso solo alle opere di Lorenzo Perosi – da valorizzare. La storia della Chiesa è piena di grandi pagine ispirate. Non necessariamente complesse e difficili. Ma anche nella semplicità occorre la qualità: oggi molti canti propongono versi poco ispirati e i soliti quattro ritmi. Non sono contro le nuove melodie purché sappiano esprimere, attraverso parole e musica di qualità, la grandezza del Mistero che si celebra.