Canonico della congregazione del Gran San Bernardo, José Mittaz è il priore dell’omonimo Ospizio, posto a 2500 metri d’altezza alla frontiera tra Svizzera e Italia. Un luogo di solitudine che ha fatto maturare in lui un ascolto esigente del pellegrino di passaggio, un ascolto che è anche preghiera.
Concretamente, come si vive il «deserto» nell’Ospizio?«Ciò che è molto ascetico, nella realtà della montagna, sono i cambiamenti meteorologici. L’Ospizio era pieno ed eravamo tutti molto sollecitati; invece il giorno dopo l’Ospizio è vuoto, non c’è nessuno... Si passa a un deserto che non è scelto da me. Come occupo allora quel tempo? Come lo riempio? O, piuttosto, come potrò stare attento a non riempirlo? L’ascesi è lasciar respirare lo spazio. In sé, attorno a sé. E non fuggire nell’attività. La vera difficoltà per me è questo cambiamento di ritmo. Chi sono, nel momento in cui non sono più sollecitato? Si raggiunge poi un’altra realtà quando si resta isolati qualche giorno: quella di una disponibilità da offrire a coloro che restano lì tutto l’anno e sono stanchi anch’essi. Nell’Ospizio viviamo in una piccola comunità, con una squadra e del personale che si chiamano "i casalinghi": vivono insieme persone che non hanno scelto di vivere in comunità, che non hanno fatto voti religiosi, e alcuni si ricaricano nei nostri tempi di preghiera mentre altri no. Essendo priore della casa, posso cogliere la loro difficoltà».
Che cosa succede in questi momenti di vuoto? Deve lottare per non buttarsi nelle cose da fare?«Sì, può accadere. Ma la lotta può anche affiorare alla fine di una giornata, nel modo in cui occupare una sera. Termino gli ultimi incontri e poi esito: devo fare un po’ di silenzio oppure tuffarmi nelle mail a cui rispondere? Il grande pericolo, sia in città sia in luoghi d’accoglienza come l’Ospizio, è vivere sempre come risposta a sollecitazioni, e non in funzione di uno slancio interiore».
Lei è nato in una valle qui vicino. Quando ha capito di voler diventare prete?«Da piccolo abitavo a Crans-Montana, vicino alla chiesa. Prestissimo la parrocchia è diventata per me come una seconda famiglia. L’elemento scatenante della mia vocazione, la mia chiamata a diventare prete, l’ho sentito l’anno in cui mio padre è morto. Avevo 10 anni. Ha avuto diversi ictus e per tre anni è stato costretto a letto. Era abbastanza duro avere un padre malato in casa, perché vuol dire che non si invita quasi nessuno; e avevo solo un fratello. Oggi, se sono in una comunità religiosa il cui carisma è l’ospitalità, non è certamente per caso».
E la chiamata l’ha confidata a qualcuno?«Ne ho parlato a una suora che prega ancora tutti i giorni per me: suor Marie-Luc, una religiosa ospedaliera. Sono sempre stato accompagnato con molta libertà. Mi sono state offerte chiavi di discernimento, senza mai decidere per me. È proprio questo che mi caratterizza e che cerco di offrire oggi. Molto discretamente, dunque, questa religiosa mi ha accompagnato sempre. Verso i 12 anni mi sono trasferito a Sion; però, siccome suor Marie-Luc lavorava in un sanatorio a Crans dove c’erano bambini con difficoltà di salute, sono stato spinto a trascorrervi varie estati come aiuto istitutore. Sono stato molto impressionato da un bambino che si chiamava Georges, colpito da poliartrite e in sedia a rotelle. La sera, durante la preghiera, Georges diceva grazie con un grande sorriso. Aveva 6 o 7 anni e trascorreva una parte della giornata steso sul letto con dei pesi per fare le estensioni. Esprimeva i suoi desideri così: "Quando camminerò, farò questo e quello...". Durante la preghiera stava seduto su una piccola sedia di legno e per mostrarci che era già vero si metteva in piedi, curvo in avanti. Faceva due passettini avanti e due passettini indietro per tornare a sedersi. "Vedete, sono già capace!". Quando vedevo Georges, penso che sentissi già la presenza dell’altro che nutriva in me quella di Dio».
Ma per un bambino di 10 anni che perde il padre, non c’è anche la domanda del «perché»?«Non ho avuto questo "perché" di fronte alla morte di papà, ho vissuto la sua scomparsa con semplicità. Credo che la chiamata a diventare prete sia stata come la trasfigurazione di una sofferenza, di una mancanza, in un slancio di vita che non mi spiego del tutto, ma che riconosco. Il "perché" di fronte a Dio l’ho avuto più oltre, quando ero in seminario, a 22 anni»
E questo «perché» è venuto per un altro avvenimento della vita?«Nel dicembre 1993 a Martigny ho emesso i primi voti, ai quali è stato invitato mio fratello, poi ho trascorso qualche giorno con lui dalla mamma. Mio fratello, che aveva 5 anni più di me, ha sempre cercato la sua strada. Era un inquieto. Due giorni dopo il mio rientro in seminario, a Friburgo, il superiore è venuto a cercarmi alla fine delle lezioni. E in macchina mi ha dato la notizia: "Tuo fratello è morto". Di cosa? "Si è ucciso". Non sono stato sorpreso. Il "perché" è stato abbastanza radicale, ma paradossalmente non faccia a faccia con Dio. Il "perché" era faccia a faccia con me stesso. Per me essere prete era dare la vita al servizio della felicità degli altri, e mio fratello si era dato la morte... Ecco ciò che rimetteva in questione tutto. Il "perché" stava lì! Non avrei fatto meglio ad andare a piantare cavoli? Penso che Dio fosse triste quanto me. Ho vissuto un immenso senso di sconfitta. Il mio accompagnatore spirituale mi ha detto: "José, non puoi metterti al posto dell’altro...", occorre accettare questa "non onnipotenza"».
Dunque ha preso le distanze dalla vocazione?«Dopo la morte di mio fratello non riuscivo più a studiare perché la sofferenza intima aveva il sopravvento. Allora sono andato due settimane dalle domenicane di Estavayer, sulle rive del lago di Neuchatel... "Quando si sente il vuoto, è il segno che bisogna spogliarsi", scrive san Giovanni della Croce. Là, nel monastero delle domenicane, ho potuto piangere e spogliarmi attraverso le lacrime. Un’altra forma di deserto».
E poi ha ripreso la via del seminario?«La mamma è stata straordinaria, perché mi ha detto. "Bisogna che torni in seminario, bisogna che tu faccia la tua vita". Nello stesso tempo aveva bisogno di parlare di mio fratello, ma io non potevo sentire, perché una sofferenza più una sofferenza era troppo. Ho dovuto porre dei limiti: "Non puoi parlarmi, vai a dirlo a qualcun altro...". Per mia madre è stato colpevolizzante, ha mal interpretato la mia reazione e ha pensato: "Forse José mi rimprovera qualcosa a riguardo del gesto di suo fratello". Non si trattava di questo, ma non potevo ascoltare. Solo due o tre anni dopo si è potuto ritessere il legame tra me e la mamma. È stata ancora una forma di deserto: non si può vivere tutto con tutti. E direi che oggi ciò che ho vissuto con la morte di mio fratello impronta la mia maniera di essere prete».
In che modo?«Essendo anzitutto prete a servizio della vita. Il criterio etico di discernimento è lo "scegli la vita" del Deuteronomio (30, 15-20). E poi, nel medesimo tempo, tento di pormi a livello dell’essenziale, dell’esistenziale, dove l’altro viene appunto a interrogarmi. Di sicuro la morte di mio fratello ha forgiato in me una capacità di lottare, di combattere».
Ma di quale forza si tratta?«La forza che provo non è quella in cui gonfio il petto... È difficile trovare le parole, ma direi che è quella di cui percepisco la "presenza" nel momento in cui la mia va in crisi. Mi umanizza, questo fatto di non essere spettatore meravigliato dei miei successi, ma di osare essere nel posto delle mie carenze. Da queste carenze zampilla una "sorgente", per riprendere un’immagine legata all’Ospizio. L’Ospizio vive perché c’è una sorgente, e una sorgente non sgorga mai da una roccia monolitica. Mai. Wilfrid Stinissen, in un commento a san Giovanni della Croce, citava una donna molto segnata dalle prove che gli aveva scritto. "Credo che, in questa prova, non ci sia scappatoia. Ma ho scoperto che, dove non c’è via d’uscita, c’è forse una porta d’ingresso, c’è sempre comunione con l’umanità". Così, osando essere sul posto delle mie debolezze, scopro una porta d’ingresso che mi permetterà di accogliere l’altro e di vibrare nella mia umanità per quanto vive l’altro. Ma può capitare che l’ascesi sia alla fine di non riuscirci...».<+nero>Cioè?<+tondo>«Cioè essere inferiori alla chiamata e al desiderio che porto in me»<+nero>L’ascesi sarebbe allora fissarsi degli obiettivi, ma accettando di non raggiungerli?<+tondo>«Sì, accettare di non essere all’altezza di quello che vorrei essere. Ciò che nutre il desiderio è provare la mancanza. All’Ospizio mi capita di stare all’ascolto 6 ore al giorno, 6 ore di ascolto personale. Sento che mi è richiesto di vivere questo tempo come periodo di preghiera: come ricevo Dio nell’incontro con colui che mi offre un po’ della sua vita? È bello, nell’ascolto degli altri, questo va e vieni: chi mi mette a parte della sua vita e mi concede di ascoltarlo, mi mette in presenza di Dio».<+nero>Una qualità di presenza, anziché una quantità...<+tondo>«Sì, non si tratta di cercare di moltiplicare i tempi della preghiera, col rischio di mettere in concorrenza Dio e il prossimo. Si tratta di unificare la vita, o meglio di lasciare che Dio unifichi la mia vita. Forse l’alterità di Dio si fa incontrare nell’alterità primaria del fratello e della sorella che si confidano con me. Io mi pongo nel silenzio, soprattutto salendo semplicemente all’Ospizio. Che bella dimensione del silenzio! Mi capita di avere degli incontri a Martigny e di risalire all’Ospizio di notte, con la lampada frontale: un’ora e mezza o due di marcia e di silenzio. Sento allora che è un periodo di presenza faccia a faccia con Dio; marciando, pongo il mio monologo davanti al Signore e cammino».<+nero>Camminare in montagna è anche raggiungere delle cime, ma lei non ne parla...<+tondo>«La cima è una celebrazione della vita, della grandezza dell’umano, ma di un umano sotto sforzo. La cima è riconoscere il cammino appena percorso».<+corsivo>(traduzione di Roberto Beretta;© «Panorama» (Francia) e per l’Italia «Avvenire»<+copyright>