venerdì 8 marzo 2013
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​«Compiere ottant’anni? Per me è una giornata come un’altra». Seduto sul divano del suo ufficio al primo piano del Teatro Strehler di Milano, Luca Ronconi appare rilassato, sorride ironico. Un giorno come un altro oggi non potrà comunque esserlo per il maestro del teatro italiano, nato a Susa in Tunisia l’8 marzo del 1933. Il Piccolo Teatro chiude una intensa due giorni di festeggiamenti per il suo direttore artistico che culmina oggi alle 18 al Teatro Studio dove il sindaco Giuliano Pisapia e l’assessore Stefano Boeri consegneranno a Ronconi il Sigillo della Città di Milano. Maestro, non dica che però quest’affetto non le fa piacere.Io i compleanni non li ho mai festeggiati, ci pensano gli altri a farlo. Però sono felice che Milano, dove lavoro da 14 anni, riconosca che il mio passaggio in questa città lasci qualche ricordo. Veramente lei in 60 anni di carriera con oltre 120 regie, comprese quelle liriche, lascia un segno indelebile nella cultura italiana...In realtà io mi sono sempre sentito in evoluzione. Si cambia continuamente negli anni. Ad esempio il mio ultimo lavoro, Il panico di Spregelburd, se l’avessi fatto 10 anni fa sarebbe stato completamente diverso. Le cose che metti in scena a teatro hanno una doppia vita. C’è una fase progettuale e una della memoria. Io sono portato a privilegiare quella che rimane nella memoria, anche perché è difficile che realizzi uno spettacolo secondo un mio progetto preciso: cambia sempre in corso d’operaCon lei sono cresciute anche generazioni di attori.Mi piace incrociare generazioni diverse. Anche nei miei recenti Sei personaggi di Pirandello avevo tutti attori al di sotto dei 25 anni. Sono ragazzi che oggi non affrontano un momento facile. Le condizioni di lavoro sono diffcili, ma anche si va perdendo la vera consapevolezza di cos’è un attore. I limiti tra un attore in senso tradizionale e un performer sono sempre più sfumati, e questo non facilita la vita a chi non sa più bene che cosa gli viene richiesto. Io cerco di indirizzarli verso qualcosa di preciso. Lei un indirizzo preciso, invece ce l’ha. Nel 2013 firma ben 5 spettacoli, fra cui anche il «Don Carlo» a Firenze e il «Falstaff» al Petruzzelli di Bari.Sono molto "preso" dagli impegni che mi sono preso. Quest’estate firmerò anche uno spettacolo a Spoleto tratto da un romanzo dal titolo preoccupante, mentre il testo lo è molto meno: Pornografia. La vera pornografia è guardare la parte oscura di se stessi. E qui i protagonisti sono due anziani che non si vogliono rassegnare all’età. Forse perché ai giorni nostri sembra che le barriere dell’età non esistano più...Questo lo lasci dire a uno che ha ottant’anni (ride). Comunque quando c’è la salute, e anche quando come nel mio caso non ce n’è più tanta, l’importante è mantenere la propria energia. Questa Dio, per fortuna, me l’ha data e me la mantiene.Quindi anche Ronconi oggi alza lo sguardo verso l’alto?Una qualche forma di religiosità c’è l’ho, l’avrò assorbita da bambino. Ma preferisco tenermi lontano da qualunque ipotesi di trascendenza. Anche se rispetto le molte persone per cui la fede è un aiuto e un sostegno. Eppure nella tante opere messe in scena, lei ha affrontato temi alti come la vita, la morte, il destino.È il teatro che mi ha fatto incontrare questi temi. Ed ho avuto fortuna nella mia esistenza di mettere in scena la vita e le grandi riflessioni su di essa in opere potenti, e anche legate alla fede, come La vita è sogno di Calderòn de la Barca.Quali sono gli spettacoli che considera fondamentali nella sua carriera e, invece, c’è qualche rimpianto? Di vere rinunce non ce ne sono mai state. Prima o poi tutto quello che volevo fare sono riuscito a farlo, senza fretta. È difficile dire quali siano stati gli spettacoli per me più importanti. Da quando sto a Milano, direi Lolita di Kubrick, Il panico, Infinities di Barrow.Lei ama far scoprire agli italiani autori nuovi.Perché mi piace lavorare su del materiale che neanche io conosco bene: è un modo per conoscerlo. Ad esempio, il motivo del successo di Infinities è stato raccontare la matematica mettendomi dalla parte della più assoluta ignoranza della materia.Ma il suo rapporto col palcoscenico è più di cuore o più intellettuale?Per me è un rapporto naturale. Da ragazzino non ho fatto altra scelta. I miei genitori  mi portavano a teatro da molto piccolo e non capivo niente, ma già verso i 12 anni ero in grado di giudicare uno spettacolo. Io ricordo a Roma alcuni grandi spettacoli di Visconti, Orazio Costa, Giannini. Quella era un’Italia che dava più importanza al palcoscenico?Diciamo che il teatro ha bisogno della società, ma la società non ha bisogno del teatro. Per me ce l’avrebbe, ma la società specie oggi non riconosce la necessità immediata della rappresentazione scenica. Nell’ambito della cultura generale il teatro occupa un posticino non grandissimo. In altri paesi, vedi la Germania, invece è un complemento indispensabile, come la musica, dell’identità nazionale. Da noi il teatro invece è sempre stato un modo per mettere in ridicolo. Non è necessariamente un fatto negativo, però, in questo modo, si perde anche di rispetto. Invece Luca Ronconi, oggi, in che direzione sta guardando? Mi sto domandando, in questi giorni di festeggiamenti, fino a che punto ho ancora voglia di guardare da qualche parte e fino a che punto ho ancora la possibilità personale di farlo. C’è qualcuno che le manca in modo particolare?Mi mancherà è Mariangela Melato. Oltre che una grande protagonista, è stata una amica affettuosissima e carissima, una donna intelligente. Ricordo che Mariangela è diventata "la Melato" da un giorno all’altro, il giorno stesso della prima dell’Orlando furioso. Adesso per una giovane attrice forse è più difficile. Occorrono maggiore pazienza e maggiore tenacia.Lascia un erede fra i nuovi registi?Ce ne sono tanti di giovani registi bravi, solo che è un mestiere più complesso dell’attore, occorre rubacchiare qua e là. Io ho rubacchiato tanto quand’ero giovane, e continuo a farlo. A me piace lavorare con gli attori giovani perché c’è un reciproco scambio. Essere aperto ai giovani dà energia.
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