«Ah! Se non ci fosse il Sud!»: potrebbe essere l’intercalare di una giaculatoria di luoghi comuni sul Mezzogiorno: prassi che impegna tanti italiani anche del Meridione. Senza il Sud, ad esempio, l’Italia sarebbe più ricca... E via di questo passo. Gianfranco Viesti, ordinario di Economia a Bari, mette in fila tutto lo
sciocchezzario per triturarlo con semplici ma puntuali argomentazioni. Lo fa nel breve saggio, incalzante come un pamphlet,
Il Sud vive sulle spalle dell’Italia che produce. Falso (Laterza, pagine 96, euro 9). Viesti con le stesse parole semplici ci spiega perché sul Sud girano tanti falsi.
Il primo luogo comune dà il titolo al suo libro. Perché è falso?Perché tutti gli italiani contribuiscono al bene collettivo. La nostra storia è di unione e lavoro comune, in Italia e in Europa. Se abbandoniamo questa storia scivoliamo su un terreno molto pericoloso. Ci chiudiamo, come negli anni Trenta, ciascuno nei propri confini. Dobbiamo invece trovare l’orgoglio di dire che lavoriamo tutti a vantaggio di tutti quanti.
Il Sud è come Malaussène, il personaggio di Pennac, capro espiatorio per giustificare molti mali. Perché è comodo?Perché ci fa dimenticare che i problemi sono di tutto il Paese. Affrontare i problemi del Sud significa trovare soluzioni per affrontare anche quelli dell’Italia. I soldi ad esempio: si spendono lentamente. Per fare un’opera pubblica ci vogliono anni e anni. Se queste lungaggini si risolvono per il Sud si trova una chiave per il resto del Paese dove le opere pubbliche sono quasi altrettanto lente.
Lei cita Nitti il quale sosteneva che nel primo quarantennio unitario il Sud ebbe un ruolo importante nello sviluppo della nuova Italia. Perché poi questo ruolo è venuto meno?Cito Nitti per il suo insegnamento: studiare le cose, anche i rapporti Nord-Sud, senza spirito piagnone e senza rivendicazionismo, ma semplicemente per sottolineare come tutti gli italiani hanno fatto l’Italia. Lo cito anche perché mi piacerebbe che ci fosse un Nitti oggi con un’idea politica molto precisa. Voleva fare l’industria attraverso l’energia e l’acqua, che allora andavano bene, e chiamava a realizzare tutto questo in maniera molto moderna: pubblico e privato, Nord e Sud insieme. In quel periodo felice, fino al fascismo, le grandi banche del Nord guardavano al Sud come a un luogo dove fare affari. Anche oggi bisognerebbe guardare al Sud così, come un’occasione.
Come esempio di unificazione porta quello della Germania che, pur senza garibaldini, si è riunificata. Doveva succedere così anche con l’unità italiana?La Germania ci mostra quanto sia difficile tenere insieme regioni con livelli di sviluppo molto diversi. Ha conosciuto intanto un’immigrazione dall’Est verso l’Ovest colossale. I tedeschi dell’Ovest questa unificazione l’anno presa sul serio. Hanno fatto un investimento di modernizzazione della Germania Est perché conveniva a tutto il Paese. Era un investimento per tutta la Germania. Con l’unificazione i tedeschi sono diventati statisticamente più poveri, ma nessuno ha sollevato questo argomento contabile.
Questa lungimiranza non l’ebbero gli italiani di 150 anni fa?«L’unico periodo felice, con successi non piccoli, è stato quello dal 1951 al 1973, che poi fu il periodo d’oro per tutta l’Italia. Riforma agraria, Cassa del Mezzogiorno e finalmente per il Sud cose che non aveva visto per un secolo: scuole, ospedali, servizi pubblici anche se di qualità più bassa rispetto alla media del Paese».
La Cassa del Mezzogiorno è spesso citata come uno sperpero. Invece non ci sono dati certi per sostenere che nel Sud si sia speso più che nel resto del Paese. È un altro luogo comune?Fu fatto uno sforzo in favore del Sud, importante, ma non eccezionale. Il fatto è che guardiamo sempre il dito e raramente la luna. Noi ci soffermiamo sugli stanziamenti speciali per il Sud senza considerare l’insieme della spesa che tante volte è a sfavore del Sud più di quanto si pensi.
Sfata un’altra credenza e dice che la spesa pro capite per lo sviluppo al Sud è inferiore anche se resta migliore paragonata al Pil.La gran parte della spesa pubblica (sanità, istruzione, grandi servizi nazionali) in base alla Costituzione è a disposizione di tutti i cittadini indipendentemente da quanti soldi abbiano e da dove vivano. Questo tipo di spesa si deve ripartire in maniera proporzionale tra i cittadini. Al Sud (e lo dico sapendo che farò sussultare molti) non è stata mai eccessiva questa spesa. Semmai è troppo piccola la parte privata. Il pubblico è eccessivo nella società meridionale, e il privato è troppo piccolo per condizioni oggettive: distanze, trasporti, istruzione. Per inciso, l’Emilia ha avuto una trasformazione straordinaria. Da regione agricola è diventata regione con un’industria straordinaria. Questo perché in Emilia c’erano tante belle scuole tecniche».
L’effetto locomotiva, al contrario di quanto si pensa, lo creano le regioni più deboli.«Questo non lo dico solo io, ma lo dicono i numeri della Banca d’Italia oltre al buon senso. Il Nord è molto autosufficiente e per crescere trova dentro di sé tutto quello che gli serve. Il Sud più arretrato è meno autosufficiente. Se cresce deve comprare dal Nord beni, servizi, intelligenze. Quindi favorisce il Nord».
Oggi il rischio di chiudersi nei propri confini, come prima diceva, può venire anche da un federalismo fiscale male applicato.Certamente. Se il federalismo fiscale significa più responsabilità e maggiore capacità di comparare i risultatiti delle varie amministrazioni sono d’accordo, e il primo a giovarsene sarebbe il Sud. Se invece, come è stato vissuto negli anni scorsi, il federalismo fiscale è un surrogato della secessione, cioè il modo per tenersi più soldi, allora deve essere evitato. L’Europa e l’Italia sono attraversate da fenomeni pericolosi di nazionalismi e di chiusura. C’è una voglia di alzare barriere. Lo vediamo con la Lega in Italia, ma anche nelle Fiandre, in Finlandia, in Ungheria. Per guardare correttamente al Sud bisogna respingere tutto questo e ritrovare il modo di pensare di De Gasperi e di La Malfa, cioè un’economia aperta all’Italia e all’Europa.