Era più facile credere nell’eternità quando non si sapeva molto del cosmo e delle sue infinite dimensioni, quando ci si poteva illudere che l’uomo occupasse – anche fisicamente – un posto di rilievo nell’universo? Carlos Eire, scrittore, saggista ed esule cubano, ne è convinto, e il pensiero lo irrita non poco. «Sono scandalizzato di fronte a un universo che esiste eternamente mentre concede a me solo briciole di tempo», dice il docente di Storia e studi religiosi a Yale. Eire nel 2003 ha vinto il National Book Award, il più prestigioso premio letterario americano, con le sue evocative «confessioni di un ragazzino cubano» raccontate nel volume "Aspettando la neve all’Avana" (Piemme 2008), nel quale descrive come la rivoluzione castrista sconvolse la sua infanzia, costringendo la sua famiglia a fuggire dall’Avana quando aveva 11 anni. Ora è tornato al soggetto dei suoi studi accademici, la storia della religione, della fede e della morte, regalando al pubblico una meditazione non sempre confortante sull’eternità. Pur illustrando in modo scientifico i paradossi dell’eterno e dell’infinito, in "A Very Brief History of Eternity" Eire non cerca di definire filosoficamente o teologicamente l’eternità, quanto di spiegare come l’idea che gli uomini se ne sono fatti è cambiata nel tempo. E cosa ne è rimasto oggi.
Professor Eire, lei indica la nascita del protestantesimo come il giro di boa nella storia che ha mutato sostanzialmente la percezione di eternità. Com’era intesa prima?«La fede nell’eternità in Occidente dopo l’avvento del cristianesimo è sempre stata strettamente legata alla fede in un Dio che promette la vita eterna. L’eternità aveva anche un posto preciso, il Paradiso, dove ci si poteva immaginare felici per sempre in compagnia dei propri cari e in presenza di Dio».
Ed è stata la Riforma protestante a far mutare questa prospettiva?«È come se l’idea di eternità si sia allontanata dalla vita di tutti i giorni. Respingendo il collegamento che il cattolicesimo aveva istituito fra vita terrena e ultraterrena, con le messe per i defunti, i corpi seppelliti nelle chiese, la comunione dei santi, le indulgenze, il protestantesimo ha reso la promessa dell’eternità un fatto soprattutto individuale. E inevitabilmente ha spinto i fedeli a concentrarsi maggiormente sul mondo fisico. Questo nel tempo ha portato a una radicale secolarizzazione del concetto di eternità».
Quale idea di eternità è più diffusa attualmente, a suo parere?«La maggior parte della gente è meno sicura dell’eternità, o almeno di una vita eterna dopo la morte. L’eternità è una questione soprattutto personale, con la quale ci si confronta da soli. L’epoca postmoderna è definita dalla perdita dell’eternità. Astrofisici e cosmologi offrono descrizioni affascinanti dell’infinito, ma le loro concezioni rischiano di rivelarsi lontane dall’uomo, perché gli esseri umani occupano una parte impercettibile dei loro calcoli sull’universo».
Come reagire a questa concezione che pare predominante?«Abbiamo potuto già constatare l’esplodere di alcune forme di ribellione. Una è l’individualistica e spesso consumistica ricerca della massima soddisfazione personale. L’altra, più che altro manifestatasi drammaticamente nel XX secolo, è la ricerca di uno Stato che si sostituisca a Dio e dia all’esistenza umana lo scopo più alto che prima era rappresentato dalla promessa della vita eterna».
Intende dire che senza prospettiva di un premio o di una punizione eterna gli esseri umani perdono la dimensione morale?«Assolutamente sì. È anche vero che la fede nell’eternità è stata ed ancora è usata per giustificare atti atroci, dallo spargimento di sangue dei crociati ai kamikaze islamici. Ma avevano ragione alcuni filosofi illuministi del XVIII secolo che, se da un lato contribuirono a smantellare il concetto di eternità, dall’altro temevano che se tutto quello che ci resta è la giustizia di questo mondo, la gente comincerà a comportarsi in modo irresponsabile. Voltaire intendeva proprio questo quando disse che se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo. Come si motiva un essere umano ad agire correttamente senza la prospettiva di un giustizia eterna?».
Molti però credono nella vita eterna anche ai nostri tempi. In cosa differisce la loro idea di eternità rispetto al passato?«È vero. Se penso ad esempio agli Stati Uniti, la maggior parte degli americani crede ancora nel Paradiso. Non so però quale ruolo questa convinzione ricopra nella loro vita di tutti i giorni. Tutto sommato, credo abbastanza marginale. Oggi, inoltre, l’idea di eternità più diffusa è quella di un’infinita ripetizione, di un prolungamento della nostra esperienza corporale, che già conosciamo, ma senza le sue brutture».
Lo considera uno sminuimento dell’idea di eternità?«Penso che per molti versi sia un pensiero terrificante. Non c’è novità, non c’è riposo, non c’è estasi...».
E lei, dopo tutto quanto ci ha detto, crede nell’eternità’?«Sì, da cattolico, anche se mi rendo conto che il mio è un atto di fede. Dopo essermi occupato di religione per tutta la vita, sono giunto alla conclusione che fede e dubbio sono inseparabili. E che quando si cerca di affrontare una questione così profonda, non la si può affrontare solo con la logica. A un certo punto, quando si comincia a considerare la propria fine e la propria non esistenza, subentra una componente emotiva o spirituale. Ci si sente a disagio. È così per tutti».