«Ora Ravi sorride nel vedere sino a che punto la cultura occidentale è parte di lei. È diventata come l’ecosistema della mangrovia, in cui l’acqua salata si mescola con l’acqua dolce. Oriente e Occidente sono le sue due fonti. Ravi è nata in Oriente, il continente del Sol Levante. A sessant’anni passati, la vita è delicatamente colorata dai raggi del sole al tramonto. La mangrovia e le sue due acque... che magnifica immagine della sua vita!».
La Mangrovia. Una donna, due anime è il titolo dell’ultimo libro di Claire Ly, uscito in questi giorni per i tipi di Pimedit (verrà presentato dall’autrice mercoledì prossimo alle 21 al Pime di Milano;
www.missionline.org). Cambogiana, sopravvissuta al regime di Pol Pot e ai campi di rieducazione, Claire ha perso marito e padre, entrambi fucilati. Da quest’inferno ne è uscita miracolosamente viva. E in quest’inferno sono maturati i germi di una conversione dal buddhismo al cristianesimo, non fatta di rotture o contrapposizioni, ma in un percorso armonico che l’ha portata a riconoscersi come persona completamente rinnovata nell’incontro con Cristo, senza aver cancellato o rinnegato nulla della sua cultura e della sua tradizione religiosa. Orientale trapiantata in Occidente, buddhista convertita al cristianesimo, sfollata nel suo stesso Paese e poi esule in Francia…
Nel suo libro, ma prima ancora in lei stessa, ci sono molte anime…«I personaggi del libro, che è costruito come una sorta di romanzo-verità, sono in fondo diversi aspetti della mia personalità. Per me è stato un modo di prendere le distanze dagli avvenimenti vissuti in Cambogia durante la dittatura dei khmer rossi, ma anche per rielaborare la memoria e guardare in fondo a me stessa. Io, come molti altri migranti, porto dentro di me più culture e tradizioni. Ma anche il dialogo interiore non è sempre facile. Ci sono cose che la cambogiana non può comprendere in quanto asiatica e che la francese non può comprendere in quanto occidentalizzata. Il problema di fondo è quello dell’armonia. Come trovarla? Bisogna arrivare a mettere le parole giuste su quella che è la nostra frattura interiore».
Da qui può partire anche un dialogo fra le religioni?«È la mia esperienza e la mia speranza. Ma questo dialogo può avvenire solo se ciascuno accetta di guardare le sue fratture e le sue lacerazioni. Spesso non vogliamo vedere gli ostacoli o gli aspetti negativi dentro e fuori di noi. Anche tra le religioni sovente non si va a fondo o si dicono solo cose di convenienza. Noi immigrati viviamo alla frontiera tra due culture e talvolta tra due fedi. Possiamo essere molto d’aiuto in questo dialogo».
È quello che cercano di fare Ravi e Soraya, le due protagoniste del suo ultimo libro. Amiche sin dall’infanzia, hanno scelto, dopo aver vissuto la drammatica esperienza del regime di Pol Pot, due cammini spirituali diversi, che tuttavia non impediscono loro un confronto sereno e costruttivo. A prima vista, parrebbe una situazione più ideale che reale…«Forse, ma è quello che io stessa sperimento. Ravi e Soraya vivono da molti anni in Francia e, di tanto in tanto, tornano insieme nel Paese d’origine in cerca di una riconciliazione possibile con la loro storia personale e con quella del loro Paese. Ravi è rimasta fedele al suo credo buddhista, Soraya si è convertita al cattolicesimo. Il viaggio diventa così occasione di dialogo, scambio e arricchimento reciproco. Una prospettiva che ciascuno, sia a livello individuale sia a livello collettivo, dovrebbe maggiormente sviluppare. Anche perché in un mondo globalizzato in cui le persone si muovono e si mischiano l’incontro e il confronto diventano un’esigenza e una sfida che non possiamo più eludere».Non ritiene che questa possibilità di dialogo sia spesso ostacolata da pregiudizi e da reciproche chiusure?«Certo il pregiudizio esiste ed è spesso molto forte da entrambe le parti. Chi arriva in un Paese straniero non ha necessariamente i codici per leggere la cultura del contesto in cui si inserisce. E chi accoglie spesso vorrebbe completamente assimilarci. Ci vuole tempo. Noi migranti siamo in qualche modo costretti a cambiare pelle, a diventare altro, senza per questo rinnegare o rinunciare alla nostra cultura d’origine. L’importante è riuscire a creare un dialogo in cui ciascuno ha qualcosa da ricevere e qualcosa da dare. Ma per fare questo bisogna incontrarsi nella verità, non in superficie».
Nel libro emerge con evidenza che lei non ama la parola e il concetto di "integrazione". Perché?«Integrare significa rendere l’altro esattamente come noi. Significa disintegrare qualcosa dell’altro. Preferisco la parola "adozione". Permette a ciascuno di conservare la propria cultura, la propria storia. Nell’adozione c’è uno spazio in cui si osa riconoscersi come diversi. Significa "addomesticarsi" reciprocamente e progressivamente, ovvero rendersi familiari l’uno all’altro. Invece, spesso si cerca di imporre agli altri quello che pensiamo che sia buono per noi. In questo modo, però, è difficile imparare a vivere insieme. Non è sufficiente la buona volontà per incontrare l’altro. Lo spazio dell’incontro non è lo stesso in tutte le culture. Ci vuole anche umiltà. E ci vuole tempo».