sabato 30 maggio 2015
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Lei cerca, di libro in libro, il “passaggio” fra le scienze esatte e le scienze umane: quel “passaggio a nord-ovest” che, per metafora, lei paragona al labirinto di ghiaccio che unisce l’Atlantico al Pacifico. Qual è il vero senso di tale ricerca?«Fin dalla più remota antichità, dal tempo dei presocratici e di Platone, si è sempre cercato di riunire, attraverso un passaggio qualsiasi, le nostre idee scientifiche più rigorose e quel che sappiamo dell’uomo. Non vi si può riuscirvi senza un percorso enciclopedico. La filosofia deve istruirsi sulle scienze esatte prima di parlare delle organizzazioni umane. Se si taglia o si trascura il percorso, si avranno, da un lato, persone che potranno parlare del mondo con esattezza, ma avranno completamente dimenticato la storia e la cultura; dall’altro, persone che praticheranno in modo imperturbabile le scienze umane nella totale ignoranza del mondo e dei suoi cambiamenti». Tale riconciliazione fra i saperi esige una singolare navigazione. Che cosa ha trovato fino ad ora?«Che il passaggio esisteva, certamente, ma che era di un’estrema complessità. Per passare dalle scienze esatte alle scienze umane, non basta aprire una porta e attraversare la strada. L’itinerario è complicato». Il progetto di un sapere enciclopedico sembra però in contraddizione con la specializzazione crescente dei saperi. Uno scienziato copre ormai solo un campo minuscolo. «Certamente. La scienza ha conquistato la sua incredibile efficacia grazie alla sua specializzazione e perché è diventata un mestiere. La complessità sempre maggiore dei problemi da risolvere esigeva una specializzazione via via più spinta. Ma la filosofia non è la scienza. Aristotele ha detto che c’era una metafisica, vale a dire una conoscenza dopo la fisica. Esiste una specificità dell’atto filosofico. Se la filosofia si divide in specialità – come la scienza –, scimmiotta la scienza senza esserlo. Non vale la pena di occupare lo spazio proprio della scienza senza averne né i mezzi, né la precisione, né la tecnica. Il ruolo che spetta a noi, a noi filosofi, è di vedere in grande». Quel che si trova nei suoi libri, alla fin fine, è un elogio della complessità. Ed è anche un processo alle ideologie che, invece, sono sempre semplificatrici.«È proprio così. Le ideologie hanno in comune di essere sempre dualiste. Definiscono il giusto e l’ingiusto, il vero e il falso, il bene e il male. Ora, non accade mai che le cose possano risolversi in maniera così semplice. Ho talvolta fatto l’esempio della Luna. Sulla Terra è come se vedessimo dal lato di un muro, mentre la fonte di luce è dall’altro. Questo perché c’è un’atmosfera e il raggio luminoso si rompe, si diffonde, si diffrange in modo complicato. Sulla Luna, al contrario, dove non c’è atmosfera, è perfettamente chiaro da un lato del muro e dall’altro c’è il nero assoluto. Le ideologie somigliano alla Luna: il chiaro e l’oscuro, il vero e il falso. Se si paragona la conoscenza a un modello della visione, direi che non si può conoscere se non nella complessità dell’atmosfera terrestre».    Ma parlare di tale complessità non è un altro modo di definire lo scetticismo? «No. C’è una differenza fra lo scetticismo e il pluralismo. Essere pluralista significa che le verità sono sempre locali, distribuite in modo un po’ complicato nello spazio. In altri termini, vi sono sempre delle singolarità. L’opposto del pluralismo è dire che una sola verità è valida per l’intero spazio, che è universale. Ed è questo l’ideologia. Il che significa: qualunque sia il problema, voi avete la verità, risolverò tutto con una sola tecnica, con un solo metodo. In realtà, quel che sappiamo delle scienze ci mostra che possiamo avere verità solo secondo territori locali, singolarità. Se cambiate sistema, cambiate verità. Lo scetticismo, al contrario, consisterebbe nel dire che non c’è affatto verità. Io non sono uno scettico». Lei fa parte di quei pensatori che, come René Girard e Jacques Ellul, scrivono da decenni e non venivano intesi perché si scontravano con il monopolio di quel che voi chiamate le "multinazionali del pensiero". Ora, all’improvviso, ecco che li si ascolta…«Lo spazio è occupato da gruppi di pressione che hanno avuto successo. Quelle che vengono chiamate le "grandi correnti del pensiero" sono piccoli pensieri locali che hanno cercato di conquistare lo spazio, volendo presentarsi come universali. Da parte mia, ho sempre rifiutato questo tipo di imperialismo o di assoggettamento. Legga Montaigne. Ho sempre creduto che ci fossero isole, punti di vista irriducibili, un che di singolare. Non ho mai voluto parlare le lingue autorizzate dell’epoca, tenere una sorta di stazione di servizio all’interno di una multinazionale intellettuale, come altri accettavano di essere benzinai presso l’uno o l’altro. La libertà di pensiero, per come la vedo io, è quella d’inventare la propria filosofia. Non è vero che si possa pretendere di liberare qualcuno quando si è uno schiavo. La vera libertà si esercita e s’inventa tutti i giorni. Consiste nel parlare solo la propria lingua, nello scrivere quel che s’inventa, nel non limitarsi a imitare, nel non formare un racket…».Lei è restio in generale a parlare di sé, del suo itinerario…«Il mio primo contatto con la storia è, nel 1936, la guerra di Spagna. Abitavo nel Sud-Ovest, e abbiamo ospitato un giorno in casa di mio padre un militante ferito delle brigate internazionali, scampato alla guerra. Una sera, mentre eravamo riuniti – io avevo cinque o sei anni –, ci ha raccontato le torture che aveva subito. L’abbiamo curato, l’abbiamo tenuto con noi per otto giorni e se l’è cavata. Una settimana più tardi, abbiamo accolto un parroco spagnolo, anche lui ferito, che ci ha raccontato esattamente la stessa storia, ma dall’altra parte. Per me, bambino, questo voleva dire la sofferenza degli uomini dai due lati della teoria. E la cosa non è più cessata. Al liceo, durante l’occupazione, ho visto compagni di matematica elementare e di filosofia uccidersi tra loro da una parte e dall’altra della strada nazionale 113. Uno era miliziano, l’altro partigiano. All’alba, li abbiamo sotterrati entrambi. Le persone della mia generazione sono state di continuo annientate da una storia che va dalla guerra di Spagna a quella d’Algeria. Non abbiamo mai smesso di essere nella violenza mortale. Quando sono stato accolto all’École Normale nel 1952, vi sono stati otto suicidi intorno a me. In modo travolgente, le persone hanno trovato rifugio nei partiti o nelle ideologie che li rassicuravano. Quella generazione si è formata tra il sangue e le lacrime. Il solo modo di uscir fuori da tutto questo è stato di dirmi che, da solo, dovevo andare avanti senza dare mai la mano a una delle ideologie che avevano fatto morire i miei amici».La storia ha piantato la violenza in lei, la violenza ideologica e il suo duplice carattere. «In maniera definitiva. Un giorno, a Venezia, entrando nella chiesa degli Schiavoni, ho visto San Giorgio che uccide il drago. Questo mi è parso simbolizzare tutto quel che avevo sempre saputo. Da un lato vi era san Giorgio, dall’altro il drago, in simmetria e in assoluta rassomiglianza. E sotto il petto del drago, sotto il ventre del cavallo, c’erano le membra sparse di un uomo e di una donna. Era questo la mia generazione; con, a sinistra e a destra, san Giorgio e il drago, che formavano come un arco. Quel che ho chiamato un giorno il forte e il contrafforte. Ecco la dualità che non ho mai potuto accettare. La teologia di Dio e del diavolo». I suoi testi e le sue affermazioni sono sempre disseminate di riferimenti evangelici. Eppure, lei non si proclama mai cristiano.«Su questo, la rimando al mio itinerario. Ho cominciato, come consigliava Platone, dalla geometria. Poi, mi sono spinto progressivamente verso campi sempre più concreti: la fisica, la biologia, le scienze umane… Credo fondamentalmente che, in materia di antropologia, sia la storia delle religioni ad avere i contenuti più concreti, carnali, globali. L’ho sempre avvertita come la disciplina verso cui tendevo. Ho letto con grande attenzione Mircea Eliade. Conosco a memoria i lavori di Dumézil. Ho incontrato René Girard, che è oggi un punto di ancoraggio decisivo. Quindi, io procedo in effetti verso l’antropologia e il religioso. Sono un lettore assiduo di Omero, di Virgilio, di tutta l’antichità greco-latina e anche dei profeti d’Israele che, secondo me, hanno inventato la nozione di storia. In cambio, non so bene cosa voglia dire “credere”, “credenza”, “fede”… Diciamo che, su questo punto, mi riservo ancora di dare una risposta. Curiosamente, io so, senza poter credere». Il suo proposito di “ritirarsi”, di liberarsi della politica, vale a dire del rancore in azione, tutto questo non la porta a sfiorare un’idea che i cristiani chiamano la santità?«È una parola che non ho mai pronunciato, ma è certo che se avessi una morale da proporre sarebbe una morale della santità. Non so cosa siano la credenza o la fede, ma credo di sapere cosa sia la santità. E mi sembra che se, domani, lo scienziato non diventa simile a un santo, la scienza è perduta. Lo penso profondamente. Ma non oso dirlo troppo, per una ragione molto semplice: dal momento in cui se ne parla, urbi et orbi, non è più la stessa cosa. Incontriamo qui una trappola terribile. Forse bisognerebbe allora lavorare e fare silenzio…»Di fronte al politico! Di fronte al principe che si lascerebbe libero con i suoi poteri!«Non del tutto. Anzi, per niente. Ora che il filosofo non è più invischiato con il potere e la violenza, ora che è fuori, è l’occhio implacabile che guarda il principe e ne svela la menzogna. Non è più parte integrante. Posso dire al principe: hai la bomba atomica nelle mani, non hai più bisogno di me. Ma io, filosofo, sono colui che mostra, che svela che tu ce l’hai nelle mani e che sarai ormai indefinitamente nella ripetizione. Non hai più che questo: la distruzione universale. Siamo noi, ormai, che possiamo mostrare la nudità assoluta di tutti i re. Il reale è fuggito da loro, e viene verso di noi».
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