Un'opera di Doriano Solinas
Il dispiacere per un gesto d’affetto non corrisposto e svilito e la ferita di un tradimento immeritato, la disillusione per un bene che sembrava genuino e l’amarezza del sentirsi dimenticati ed esclusi con perfidia e crudeltà. La dimenticanza di un atto di generosità o di un vantaggio ricevuto, il sottile piacere di una vendetta inferta con premeditazione, come si pareggia un conto, la rabbia che genera sospetto, vendetta e un groviglio di altre meschinità e miserie da cui si può attingere a piene mani.
C’è un pozzo di violenza dentro l’ingratitudine, parola spietata, essa stessa dal suono sgradevole con quel suo grattare in gola e insieme evocare tristezze, rabbie e risentimenti, favori e livori, ferite mai sanate del tutto. Tanto più ingrata perché non sa consolarci né condurci ad alcuna bellezza. Eppure, nonostante si cerchi di guardarla con maggiore rammarico quando ne siamo vittime, nessuno ne è immune. Colpa del nostro rapporto fragile con la memoria. O meglio della memoria corta della riconoscenza, sottotitolo ad hoc di Ingratitudine, ultimo lavoro del filosofo Duccio Demetrio fresco di stampa per Raffaello Cortina Editore (pagine 192, euro 13,00).
Un saggio critico che si prefigge, negli intenti dell’autore e per i lettori disposti a non tirarsi indietro, di aprire qualche porta chiusa ma non definitivamente, «di mettere a nudo i non pochi aspetti dell’esistenza che rinviano all’ingratitudine come a una questione morale dalle molte risonanze e implicazioni, per sollecitare riflessioni e autoanalisi». Come dire che la vita è piena di ingratitudini ma inoltrarsi sul terreno scivoloso e paludoso del malanimo, degli opportunismi e dell’irriconoscenza è, al di là dello sgomento che può procurare, un modo per riconoscersi e guardare con maggiore attenzione alle nostre fragilità.
Occasione per aprirsi magari con più consapevolezza alla virtù della gratitudine e alle grandi vette della riconoscenza. Spiega il professore che «l’ingratitudine prima o poi ci visita tutti. Tutti siamo attori di mancanze verso gli altri e tutti ne abbiamo provato da vittime le sofferenze. Ma la sostanza su cui l’ingratitudine si radica è la perdita volontaria di memoria e di prospettiva etica profonda, diventata comportamento collettivo. Facciamo di tutto per ancorarci al presente, per dimenticare noi stessi, il ruolo che altri hanno avuto nella nostra storia. Abbiamo bisogno di non soffermarci troppo sui nostri comportamenti, perché preferiamo non interrogarci sulla responsabilità a cui quegli atti ci chiamano. Al contrario la gratitudine ha una memoria lunga. Quando ricordiamo le persone che ci hanno amato e fatto del bene anche se sono passati tanti anni facciamo un dono a noi stessi».
Rievocarle produce un bene durevole, il desiderio di ricambiare il dono ricevuto, non per pareggiare un conto o saldare un debito ma perché è bello moltiplicare il bene. Perciò dovremmo lavorare sul ricordo di ciò che ci ha formati e di chi ci ha aiutato a vivere e stare al mondo, rovistare nella memoria dei tempi dell’infanzia quando, bambini, abbiamo imparato dagli adulti l’alfabeto delle emozioni e dei comportamenti.
Questo spiega anche la scelta di Demetrio di aprire ogni capitolo del libro con immagini di bambini e bambine realmente esistiti, ritratti degli anni 50, che consentono un gioco di supposizioni sulle promesse e le domande esistenziali suggerite dai loro sguardi silenziosi, di congetture sulle loro presunte future ingratitudini. Il percorso del filosofo attraverso la materia intricata dell’ingratitudine, non si arena tuttavia alla sfera privata, perché i segnali dilaganti di allentamento delle relazioni investono anche la sfera sociale, in modo preoccupante. Del resto l’ingratitudine pubblica e la diffidenza verso la cosa pubblica non sono che lo specchio di costumi privati senza regole.
Continua Duccio Demetrio: «Cosa sta succedendo in questo clima di cultura dell’ingratitudine e di degenerazione del rapporto di fiducia tra la comunità dei cittadini e le istituzioni è evidente. Le recriminazioni e le polemiche devastanti nei confronti di chi offre servizi hanno raggiunto un tale eccesso da creare malumori, sfiducia collettiva e aggressività sociale. Sempre più la gratitudine ci manca come comportamento collettivo, fonte di solidarietà e fraternità; sempre più dilaga l’ingratitudine in quanto frutto di una sistematica diseducazione civile a nutrire passioni per il bene comune, l’equità, la giustizia sociale».
Perciò è necessario un cambio di prospettiva sostanziale nel modo di fare e di essere, di allargare lo sguardo e aprirsi verso la riconoscenza che – come puntualizza Demetrio – non è affatto lo scontato sinonimo di gratitudine, virtù non priva di trabocchetti. Liberandoci dal vincolo un po’ mercantile dello scambio e della restituzione tipico dei nostri giorni, ancorato alla dialettica gratitudine-ingratitudine, la riconoscenza ci mette dentro la logica del dono, emblema della gratuità, e della misericordia. «È un atto che ci apre senza contropartite alla riconoscenza della vita e della bellezza – conclude il filosofo – e ci eleva e ci avvicina all’assoluto di credenti e non credenti». La riconoscenza che ci protegge dallo spegnimento dell’animo della quotidianità.