Tornare a respirare per riscoprire il valore (anche economico, anche sociale) della speranza. «Non è un gioco di parole – avverte il sociologo Mauro Magatti –. Nell’etimologia del termine “prosperità” si intrecciano queste due radici, accomunate dalla particella “pro”. Si spera, e si respira, sempre a favore di qualcosa e di qualcuno». Dopo una serie di saggi dedicati ai limiti del capitalismo tecno-nichilista (tra cui
Libertà immaginaria, del 2009, e
La grande contrazione, del 2012) lo studioso ha deciso di consegnare alle pagine di
Una nuova prosperità (Feltrinelli, pagine 200, euro 18, in libreria da oggi) la mappa di una rivoluzione tanto possibile quanto necessaria. Il libro – scritto a quattro a mani con Laura Gherardi – prende in esame «quattro vie per una crescita integrale», suggerendo di trovare un punto di equilibrio fra le soluzioni proposte dalla nuova ecologia politica e dal convivialismo, dall’economia della contribuzione e da quella «azione generativa» di cui lo stesso Magatti è capofila insieme con la moglie Chiara Giaccardi, anche lei docente all’Università Cattolica di Milano. «Tutte posizioni in cui è evidente la volontà di uscire dall’alternativa senza scampo fra predominio della finanza e decrescita felice – spiega –. Il dato di partenza resta la crisi economica del 2008, la cui portata è destinata a risultare sempre più rilevante sul piano storico».
Perché?«Perché il tracollo di Lehman Brothers rappresenta la fine di un ciclo iniziato vent’anni prima con la caduta del Muro di Berlino. Allora gli Stati Uniti si sono trovati nella condizione di poter orientare, in modo pressoché invisibile, la logica di fondo della globalizzazione. Quel processo, però, si è concluso: il mondo ormai è globalizzato e le domande di oggi non rispettano più le categorie del passato. Inutile credere che il meccanismo si sia inceppato. Bisogna trovare nuove strade».
E smettere di camminare da soli, giusto?«Sì. L’individualismo è stata la caratteristica costitutiva del neoliberismo, ma in questa fase non possiamo fare a meno di metterci in una prospettiva del tutto diversa, che tenga al centro la relazione con l’altro. In caso contrario, le società avanzate sono destinate a estinguersi. Non è solo questione di strutture, anche se alcuni investimenti, come quello sull’istruzione, appaiono non più rimandabili. Quello che serve è un modello culturale che superi la mentalità consumista nella quale l’Occidente è invecchiato mentre si illudeva di crescere. Allo stato attuale, sono i Paesi emergenti a poter contare ancora su un margine di sviluppo. La parte più avanzata del mondo deve avere il coraggio di ripensare la propria prosperità riconoscendo che ogni visione economica sottintende una dimensione spirituale. Tramontato l’individualismo nichilista, c’è da progettare un altro modo di vivere insieme».
È per questo che Papa Francesco insiste così tanto su questi temi?«Le osservazioni sull’economia presenti nella
Evangelii Gaudium mi sembrano la conferma che lo spirito c’è, e soffia con forza. Per un credente come me è lo Spirito Santo, per altri può essere lo spirito del tempo, ma resta il fatto che Bergoglio ci sta guidando in questa stagione inedita così come Giovanni Paolo II ci aiutò, dopo l’89, ad abitare un mondo non più segnato dalla divisione fra Ovest ed Est».
Quali sono le urgenze di oggi?«Anzitutto la disuguaglianza sociale, che non è ineluttabile. Il lavoro non più essere svalutato a tutto beneficio del capitale finanziario. Negli Usa è successo esattamente questo: l’erosione dei salari ha fatto da volano all’indebitamento dei ceti popolari, con le conseguenze che conosciamo. Si tratta di un argomento sul quale gli esponenti della nuova ecologia politica hanno da tempo avviato una riflessione molto profonda».
Scusi, ma non è il linguaggio del marxismo?«Semmai è il ritorno, e in grande stile, di temi che sono sempre stati cari alla dottrina sociale della Chiesa. I “beni di comunità” teorizzati dal convivialismo, per esempio, non sono affatto una caricatura del bene comune, ma l’espressione del principio per cui alcuni beni, destinati a migliorare la vita della comunità, richiedono di essere governati in modo specifico, diventando così una sorta di palestra in cui sperimentare la difficoltà e la bellezza dello stare insieme».
Ma questa è teoria o esistono già applicazioni pratiche?«L’economia della contribuzione offre numerosi casi in cui la risorsa umana è la prima a essere messa a frutto, anche all’interno di un’impresa economica. Il superamento della rigidità gerarchica, l’allargamento degli spazi di autonomia, il ricorso a una sana flessibilità sono esperienze che già si sono rivelate proficue ed efficienti. Sono, fra l’altro, un’opportunità per dare concretezza alla democrazia, la cui funzione non può ridursi alla mera espressione del voto».
Non abbiamo parlato dell’azione generativa.«Che chiama in causa l’elemento decisivo, quello della libertà. La nuova prosperità, per affermarsi, richiede un salto di cultura, che si traduce nell’abbandono di un atteggiamento adolescenziale, di una libertà individualista e priva di responsabilità. Essere liberi in senso generativo significa rendersi conto che il benessere non è un possesso esclusivo, ma riguarda anche e specialmente chi viene dopo di noi. Non è una restrizione, un limite che porta alla rinuncia, ma l’occasione per essere finalmente noi stessi».