Qual era il segreto di papa Wojtyla che gli permetteva di parlare alle famiglie, alle donne, ai bambini, ai giovani, agli anziani, ai lavoratori, ai carcerati, ai migranti, ai malati e – insomma – a tutti e di essere inteso e qualche volta compreso? Un doppio segreto, io credo. Quello, innanzitutto, di un’umanità ricca e provata, che il dolore familiare precoce e il lavoro, la guerra e la dittatura avevano preparato all’incontro con ogni esperienza umana. E l’altro segreto che possiamo indicare con il dono avuto dal Cielo di riuscire a essere a un tempo pienamente uomo di Dio e pienamente uomo del suo tempo. Per segnalare la capacità di Giovanni Paolo di parlare a tutti – compresi i bambini e i lontani – racconto un incontro privato e riferisco le parole di un collega giornalista che mi ebbe a confidare, vicino a morire, di aver ricevuto da quel papa un forte aiuto a credere. L’incontro risale al dicembre del 1989, quando fui invitato da don Stanislaw – oggi cardinale di Cracovia – alla messa del mattino nella cappella dell’appartamento privato. Avevo appena pubblicato da Mondadori un volumetto a quattro mani scritto con il collega Domenico Del Rio e intitolato Wojtyla il nuovo Mosè. Il papa lo lesse durante un viaggio africano e chiese al portavoce Joaquín Navarro-Valls se c’erano, su quell’aereo, gli autori del libro. Il portavoce rispose che l’uno c’era, ma l’altro – cioè io – no, «perché ha la moglie molto malata». La mia prima moglie infatti era colpita da tumore al seno e sarebbe morta un anno più tardi. Veniamo invitati alla messa – io, mia moglie e i quattro nostri figli – e siamo colpiti come tutti dalla concentrazione del papa nella preghiera e nelle lunghe pause di silenzio, che facevano durare per un’ora quella celebrazione senza omelia. La più piccola dei miei figli, che ha due anni, si addormenta in braccio a me ma verso la fine della messa si risveglia e dice ad alta voce «Ciuccio!». Il papa, nella conversazione che abbiamo subito dopo, prende in braccio la bambina, si complimenta per la sua bravura in cappella e osserva: «Ma un momento si è sentita!». Ecco com’era Giovanni Paolo: concentrato in Dio e capace insieme di cogliere il più piccolo segno che gli poteva arrivare dall’umanità circostante. In quell’occasione mi parlò del libro che avevo scritto su di lui: «Lei ha potuto leggere, ha potuto studiare e così ha potuto togliere molti miti. La ringrazio per questo sforzo di comprensione». Dicevo che il libro era scritto insieme a Domenico del Rio, essendo egli vaticanista di Repubblica e io del Corriere della Sera. A Domenico che era vicino a morire, nel gennaio del 2003, chiesi durante una visita al Gemelli se voleva che io dicessi «qualcosa a qualcuno». Rispose: «Al papa! Vorrei far sapere al papa che lo ringrazio per l’aiuto che mi ha dato a credere. Vedendo che credeva con tanta forza, allora anch’io un poco mi facevo forza. Questo aiuto l’avevo a vederlo pregare, quando si mette in Dio e si vede che questo mettersi in Dio lo salva da tutto». Attore e poeta, operaio e patriota polacco, amante della montagna e del nuoto, Karol Wojtyla divenuto Giovanni Paolo non ha avuto alcuna difficoltà a porsi a interprete dell’umanità della sua epoca, ma è riuscito anche a mostrare a quell’umanità – con l’esempio e con le parole – che cosa sia credere in Dio ai nostri giorni. In questa interlocuzione universale egli è stato aiutato dalla lunga durata del pontificato. Quei 26 anni e mezzo hanno permesso alla Chiesa e al mondo di intendere la radicale novità di Giovanni Paolo, che è quella di un papa eletto contro ogni aspettativa e che non sale al trono di Pietro con un programma pontificale in tasca, ma si affida alla provvidenza che l’ha chiamato e risponde alle sfide delle circostanze da cristiano vivo, dando testimonianza della sua fede a ogni persona che incontra e a ogni gruppo umano al quale si rivolge. Riuscendo in qualche modo a «farsi tutto a tutti» – per dirla con l’apostolo Paolo – a dimensione dell’umanità di oggi. Quella lunga durata – per numero di anni il suo pontificato è il secondo di tutta la storia, dopo Pio IX, che regnò 31 anni e mezzo – l’ha aiutato a raggiungere veramente tutto il mondo, svolgendo una predicazione evangelica audace e modificando l’immagine papale per avvicinarla all’uomo della nostra epoca. Che infine la sua predicazione sia stata almeno in parte compresa ce lo dicono i tre milioni di persone che si precipitarono a Roma la prima settimana di aprile del 2005 per dargli l’ultimo saluto e l’attesta il grido «santo subito» che accompagnò quell’addio. Un pontificato straordinario, dunque, al quale l’uomo Wojtyla fu preparato da circostanze straordinarie: solo al mondo a ventuno anni, è provato da una precoce esperienza del dolore umano che lo predispone all’incontro con ogni sofferente; va prete da adulto, avendo avuto frequentazioni e amicizie anche femminili, nella scuola, nell’università, nel lavoro, nel gruppo teatrale clandestino di cui fa parte durante l’occupazione tedesca della Polonia: da qui viene la sua spontaneità nel trattare con le donne e la sua sensibilità per il «genio femminile»; le esperienze della guerra, del lavoro manuale, del teatro clandestino che l’hanno preparato per la predicazione della pace, per l’incontro con il mondo del lavoro, per la pronta sintonia con ogni lotta contro le dittature; il lungo desiderio di libertà, maturato nel confronto con il regime comunista, che l’ha istruito su come parlare del comunismo a chi non l’aveva sperimentato sulla propria pelle; le prime esperienze pastorali con i giovani e le giovani coppie che l’aiutano ad «amare l’amore umano» e lo predispongono alla comprensione, lui celibe, dell’esperienza familiare. Un pontificato dunque proiettato nella predicazione del vangelo fino ai confini della terra e nel sogno apostolico di arrivare a ogni persona. «A tutta l’umanità, a tutti gli uomini» fu uno dei suoi motti.