Una creatura simile in tutto al suo creatore, un imprevisto che dona alla creatura la libertà di scegliere e la scelta finale di eliminare il proprio creatore: questione teologica, trama letteraria o frontiera tecnologica? Il frutto proibito dell’Eden, quello che avrebbe donato all’uomo la libertà – di creare e di scegliere – nel tempo ha avuto forme e volti diversi, ma tutti accomunati dal brivido emozionante di poter donare la vita e dalla paura di essere sopraffatti da questa stessa possibilità. Ad alimentare questa paura ci hanno pensato racconti, film e opere artistiche di ogni genere, ma anche le conquiste delle ricerche scientifiche. Dalla robotica, in particolare, in questi ultimi anni arrivano sfide sempre più ardue, come quella proveniente da alcuni laboratori di Losanna: secondo le ricerche dell’italiano Dario Floreano, direttore del laboratorio di Sistemi intelligenti del Politecnico della città svizzera, e di Laurent Keller, biologo dell’Università della stessa città, anche i robot sarebbero in grado di evolversi, imparando dal nulla nel giro di un centinaio di "generazioni" a compiere operazioni complesse come quella di ritrovare la via di "casa", cacciare una preda o fuggire da un cacciatore, collaborare in gruppo ed essere "altruisti". I risultati della ricerca – pubblicata sulla rivista online "Plos Biology" – sembrano, insomma, un passo verso scenari come quelli raccontati in film del genere di
Matrix, dove i robot prendono il sopravvento, lottando per la propria sopravvivenza come avviene in natura secondo le leggi dell’evoluzione ipotizzate da Charles Darwin. E proprio queste regole sono state applicate negli esperimenti di Floreano e Keller, che hanno prodotto dei robot con una piccola "rete neurale" (una copia fatta di chip e dati del cervello) e, introducendo di volta in volta delle variazioni casuali, hanno selezionato quelle che portavano a esiti migliori, incrociandole tra loro nelle generazioni successive. I risultati hanno portato a una "naturale" evoluzione verso operazioni complesse radicate fondamentalmente in due principali obiettivi: la sopravvivenza propria e quella del gruppo. Confermando così che l’"altruismo" è un dato fondamentale, senza il quale nessun essere vivente può "avere successo". In realtà gli sforzi dei due scienziati, più che a creare una generazione di robot autonomi, puntano a comprendere meglio le regole dell’evoluzione e i meccanismi biologici-comportamentali degli esseri viventi. D’altra parte va detto che sono i ricercatori a decidere quali combinazioni "hanno successo", anche se poi alcuni dei risultati sono emersi in maniera non prevista. Ma l’evoluzione dei robot può davvero sfuggire al controllo dell’uomo o è solo una paura che l’uomo, in quanto creatura libera di scegliere se accettare o eliminare il proprio creatore, riflette sulle proprie creazioni? E come si possono regolare le relazioni tra l’uomo e i robot, sempre più complessi e presenti nella vita di tutti i giorni? Secondo Antonio Bicchi, direttore del Centro per l’automatica, la robotica e la bioingegneria "Enrico Piaggio" dell’Università di Pisa, «il fatto che un sistema mostri capacità di adattamento e apprendimento non deve indurci a pensare che un robot possa non seguire più, nel suo comportamento, regole algoritmiche, arrivando a una sorta di "autodeterminazione"». Insomma, «il fatto che un determinato comportamento non sia specificato in un preciso algoritmo [una regola di elaborazione dei dati provenienti dall’esterno,
ndr] dato alla macchina, ed emerga da una sorta di processo selettivo di fronte a mutamenti dell’ambiente circostante, non significa che la risposta del robot non sia governata da regole e che, quindi, possano emergere comportamenti "non programmati". Semplicemente – sottolinea ancora Bicchi –, l’informazione che le macchine acquisiscono non è più codificata in algoritmi universali, dati alla macchina prima, ma il robot la mette insieme acquisendo pezzi di informazione dai vari nodi della rete». Le parole chiave nel futuro della robotica sembrano essere quindi "condivisione" e "collaborazione", se Floreano, infatti, ha dimostrato che l’"altruismo" rientra nel cammino dell’evoluzione anche dei robot e Bicchi cita progetti di reti complesse in cui gli oggetti sono in grado di "parlare tra loro" modificandosi in base a questo scambio, un altro scienziato italiano, Marco Dorigo, dell’istituto per l’Intelligenza artificiale (Iridia) dell’Università di Bruxelles, sta progettando veri e propri robot "altruisti". Anche in questo caso il modello alla base è quello del gruppo, anzi, dello "sciame". «Numerose specie animali, dai pesci agli insetti – spiega il ricercatore –, si muovono secondo una logica di gruppo, senza mai disperdersi o essere d’intralcio, ma al contrario aiutandosi a vicenda». Si tratta, quindi, di tradurre questi comportamenti in tecnologie utili all’uomo. Contrariamente a quanto si pensi l’Italia è all’avanguardia in questo tipo di ricerche. Ne sono un esempio "Chat" e "Viactors", sui quali sta lavorando il centro "Piaggio". «Con l’obiettivo di correlare l’interazione tra capacità cognitive, struttura, morfologia e capacità di compiere determinate prestazioni è nato "Viactors" – spiega Bicchi –, un progetto europeo che vede coinvolte università e centri di ricerca di tutta Europa. Tra i partner vi è anche l’istituto italiano di Tecnologia di Genova. Scopo del progetto è capire quali sono le parti di una struttura biologica che consentono all’organismo di svolgere determinate funzioni, per poi sviluppare nuovi componenti per i robot in grado di svolgere la stessa funzione». Nel settembre 2008 ha inoltre preso il via "Chat": «Il progetto – nota il direttore – sviluppa concetti e tecnologia atti a mettere in rete tra loro diversi componenti di un impianto industriale, per fare in modo che si "parlino" e possano interagire l’uno con l’altro. Ma l’interazione uomo-robot non è sempre facile: a riflettere sulle implicazioni di tale relazione è la "roboetica", l’etica applicata alla robotica. Nel caso delle «neuro-protesi» usate per fare recuperare ad un individuo funzioni, per esempio motorie, perdute a causa di un danno al sistema nervoso centrale, sottolinea Bicchi, «il problema è quello dell’autonomia della persona in relazione al controllo condiviso uomo-macchina, all’ipotesi che l’uso delle macchine possa alterare il senso di identità personale dell’individuo, la percezione di se stessi e della propria interazione con l’ambiente».