Donatello, "Madonna Pazzi", 1425-1430 circa. Berlino, Bode Museum - WikiCommons
Secondo Pascal «la superbia dei filosofi, che hanno conosciuto Dio e non la loro miseria», rende «inutile e sterile» il loro sapere. Il Dio «dei filosofi e dei dotti», il Dio del razionalismo metafisico non sarebbe autenticamente Dio, essendo solo un ente di ragione. Vero Dio è soltanto il Dio della fede: «Il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei cristiani è un Dio d’amore e di consolazione». Pascal aveva di mira innanzitutto il Dio di Cartesio, teorico di un mondo ridotto a rapporti di causa ed effetto fra corpi, essenzialmente ateo, a cui aggiunse Dio, onde «fargli dare un colpetto per mettere in moto il mondo». Su questa linea si ritrova anche Kierkegaard, in polemica con il Dio hegeliano ridotto a sostanza, sapere assoluto, storia, a cui contrappose il Dio del «cavaliere della fede», Abramo. Del Dio fine o causa razionale, valore o paravento morale, infine, Nietzsche raccontò la morte, riscontrandone l’evento inesorabile. Con Barth (e non solo) la teologia assunse tale critica radicale al Dio dei filosofi e la stessa filosofia, più preoccupata per la propria fine che per il venir meno della riflessione su Dio, non ci pensò più.
Nel pensiero italiano in particolare, tuttavia, dedito a questioni filosofico-teologiche sin dalle sue origini, non solo né soprattutto a quelle filosofico-politiche, è da tempo in atto una riscoperta del problema filosofico di Dio. Ciò avviene in maniera particolarmente incisiva in quei filosofi che abbiano pienamente assunto le considerazioni critiche pascaliane e kierkegaardiane, kantiane e nietzscheane, in vari modi volte a comprendere limiti e grandezza dell’esistenza umana, tuttavia non rinunciando a un discorso filosofico riguardante Dio, anche e soprattutto il Dio della fede cristiana.
Momento di svolta è il 1985, anno di pubblicazione di due volumi cruciali, la quarta edizione di Esistenza e persona (il Melangolo) di Pareyson e Icone della legge (Adelphi) di Cacciari, a cui andranno ad aggiungersi altri loro fondamentali testi: Ontologia della libertà (Einaudi 1995) e Dell’Inizio (Adelphi 1990). Ai due filosofi si sono poi affiancati Vitiello con Cristianesimo senza redenzione (Laterza 1995), Il Dio possibile (Città Nuova 2002) e Dire Dio in segreto (Città Nuova 2005), Vattimo con Credere di credere (Garzanti 1996) e Dopo la cristianità (2002), Givone con Trattato teologico-poetico (il Melangolo 2017) e Quant’è vero Dio (Corriere della sera 2018). Questa schiera di filosofi ha inoltre realizzato un profondo e fecondo dialogo vivente con teologi come Tilliette, Coda, Forte, Sequeri e Quinzio.
Recentemente Cacciari, dopo l’uscita di un suo altro testo capitale, Metafisica concreta (Adelphi 2023), dedito alla questione dell’eternità di ciascun ente, sino all’impossibile possibilità della sua immortalità, in un dialogo in particolare fra filosofia e scienza, ha apposto una originale postfazione alla nuova edizione di Aristotele, Il motore immobile, a cura del compianto Reale (Morcelliana 2024). Dio inteso aristotelicamente come motore immobile è per eccellenza il Dio dei filosofi e la teologia che ne consegue non sembra che risultare una teologia assai razionale. Cacciari riesce tuttavia a mostrare come il Dio causa finale in realtà sia anche causa efficiente e, poiché ogni essente deve essere detto, parimenti, in potenza e in atto, esso invero indica e presuppone una inesauribile phýsis che giustifica la nostra dotta ignoranza e inquieta ricerca di ciò che è divino ed eterno.
Givone invece dedica ora un suggestivo, questionante romanzo storico a Tutto è grazia (il Melangolo 2024). Recita il protagonista Giambattista Boetti, padre missionario domenicano e condottiero caucasico con il nome di Almansur, il Vittorioso: «Tutto è grazia. Ciò, che non è grazia, non è. Neanche il male è, perché versa nelle tenebre e nel non essere». La fede cristiana mostra proprio l’azione continua della grazia di Dio nel mondo, sino al miracolo primo, la morte di Dio. «Miracolo è che il Figlio di Dio sia morto. Che il Figlio di Dio risorga, è normale. Se no, che Figlio di Dio sarebbe mai? Figlio dell’Uomo. Figlio dell’Uomo e basta. Ma che il Figlio di Dio muoia, muoia come muoiono tutti gli uomini, e come tutti gli uomini finisca in una tomba, questo sì è miracoloso». Ma non Dio, bensì l’uomo è l’interrogativo radicale a cui nessun sapere può dare certa risposta. «Dio può volere e non volere qualcosa. Semmai l’uomo. L’uomo sì che è un mistero. Non Dio. Dio vuole quel che vuole. In ogni istante. Sempre». «Senso ultimo di tutte le cose è che è stato ciò che doveva essere. È stato perché Dio ha voluto che fosse. È stato perché non poteva non essere».
Il filosofo e acuto storico del pensiero Curi, infine, s’è a sua volta rivolto a Parlare con Dio (Bollati-Boringhieri 2024), principalmente attraverso i testi biblici, non senza aver prima finemente esaminato la comparsa della teologia nella filosofia greca classica, a indicare un discorso su Dio che, a un tempo, ne esprime l’indicibilità. Per Curi la narrazione biblica della rivelazione delle Dieci parole, il Decalogo, ribadisce in più modi l’irraggiungibilità delle parole stesse di Dio, dette o scritte. Il Signore non parla direttamente al proprio popolo, ma per mezzo di Mosè, al quale comunica attraverso tavole scritte, a loro volta consegnate a lui due volte, in una traduzione continua e successiva, che mostra dunque più i limiti umani che la voce stessa di Dio. Questo paradosso dell’obbedienza, dell’ascolto fedele alle parole di Dio, è esemplare nella figura di Abramo, chiamato alla fede più impossibile nel sacrificio del proprio diletto figlio Isacco. La paradossalità è intrinsecamente propria alla vera teologia, una teologia che non pretenda idolatricamente di rendere presente ciò che non può che restare assente. Paradosso presente nelle stesse prove filosofiche, razionali dell’esistenza di Dio, il cui esito logico è l’esistenza di un Dio fuori da ogni logica e maggiore di ogni dire e pensare. Per Curi è pertanto possibile autentico dialogo fra filosofia e teologia, proprio alla luce del paradosso. Una teologia non soltanto dogmatica, ma anche problematica, e una filosofia aperta alle istanze dell’esperienza credente, che non ricada nell’assolutizzazione dello scetticismo, entrambe alla ricerca di una verità ancora sempre da cercare, senza pretese di possessi ultimi ed esclusivi, possono ascoltare un Dio da ultimo indicibile, tuttavia il cui silenzio non è una mera vuota assenza, bensì una piena benché tacita chiamata, da ascoltare e interrogare, a cui corrispondere con inquieto cuore.
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