Padiglione del Vaticano: Maurizio Cattelan, “Father" - La Biennale di Venezia
The Woman in the Wall è una miniserie piuttosto recente, ambientata nel contesto disagiato di un piccolo paese irlandese in cui una working class dimenticata fatica non solo a tenere il passo con la contemporaneità feroce del decentramento di risorse e opportunità ma anche a fare i conti con trascorsi il cui strascico ha raccolto di tutto dai fondali oscuri di omertà ataviche. L’immersione nella realtà delle Magdalene Laundries e il racconto impietoso di cosa succedeva alle madri rimaste incinte fuori dal matrimonio e separate immediatamente dopo il parto dai propri figli nelle Mother and Baby Homes, svuota di energie e speranza una rabbia indefinita di cui si è insieme protagonisti e oggetti, fardello condiviso da tutti in gradi di omissione a vario titolo.
Nell’isola di smeraldo alcuni istituti cattolici sottraevano i neonati a ragazze opportunamente catalogate come incapaci di assolvere ai doveri della maternità visti i comportamenti impuri che la avevano determinata, vittime perfette per una eviscerazione affettiva disumana che permetteva ai vari intermediari di affidare i piccoli presso famiglie disposte a generose donazioni, dopo averne dichiarato il decesso, in modo da coprire il traffico di adozioni alla comunità consenziente e alle madri biologiche che non sarebbero più state in grado di ritrovarli.
La straniante solitudine di chi si trovava a vivere la nascita di un figlio come un brutto sogno da cui ci si risvegliava senza trovarne più traccia è talmente sofferta da instillare in chi guarda il senso di una giustizia annegata nel sopruso che si serve strumentalmente della religione amministrandone il lato punitivo, il cui diritto, va detto, non appartiene a nessuno se non ai sadici e ai carnefici. Il dolore è così intenso da portare la interprete principale vicino alla pazzia, il Dio perso nel silenzio piegato agli interessi perfino imperscrutabili dei suoi rappresentanti protempore.
Padiglione del Vaticano: l’installazione di Marco Perego e Zoe Saldana - Marco Cremascoli / La Biennale di Venezia
Quando ho compreso la impostazione del nuovo padiglione vaticano per la Biennale d’arte 2024, The Woman in the Wall è stata la prima immagine che mi è venuta in mente. Osservo con totale disincanto la relazione tra religione e arte contemporanea, cui credo profondamente ma non nei termini dell’asservimento ai diktat di moda nella società bene, quella che, per intenderci, stira sempre le pieghe e storicamente si è distinta per il suo rapporto privilegiato con Santa Madre Chiesa, tanto meno nell’adozione della forma didascalica di artigianati devozionali dichiaratamente commerciali che con la poesia, con la spinta autentica al cammino interiore non hanno nulla a che spartire, rivolti unicamente a reiterare piuttosto che interrogare, a bloccare invece che aprirsi alle dinamiche faticose del credere. Sono anche estremamente scettico riguardo la commistione tra cariche istituzionali e pratiche artistiche, troppo spesso soggetta all’utilizzo strumentale da parte di funzionari di ogni sorta intenti perlopiù ad esaltare le proprie velleità servendosi del potere proveniente da questo o quell’incarico.
Tutte ragioni per cui la notizia di un altro padiglione vaticano alla Biennale di Venezia sulle prime mi ha visto decisamente scettico, incentrato più che altro sui nomi dei partecipanti cui le riviste del settore fanno riferimento come bandierine segnaposto della qualità. Poi ho incrociato un paio di articoli che illustravano meglio il tutto. Il carcere femminile, le donne perdute, la esclusione dei device digitali in un evento inevitabilmente glamour che rinuncia così alla diffusione banale e amplificata a favore di selfie. Il taglio impresso a tutta l’operazione mi è apparso sorprendentemente nuovo. Tutte le mie perplessità sono crollate lasciando spazio ad una sensazione di fermento interiore difficile da descrivere.
L’evento pensato dal cardinale Tolentino con il suo ufficio è un atto di poesia autentica, scevro da retoriche che si dissolvono nell’odore acre e caratteristico del carcere, che, come per l’obitorio, conosce solo chi vi è stato personalmente, il più sacro degli incensi, calato nella realtà dura dell’isolamento e dell’afflizione, libero dalla melassa di salvezze apocrife a portata di portafoglio. L’amaro ostico che caratterizza il progetto per il carcere della Giudecca ha preso per mano la morte senza appello che mi era rimasta dentro con la storia delle lavanderie, aprendo ad una Chiesa la cui misericordia si rivolge prima di tutto verso se stessa, sigillata in un patto nuovo rivolto ai sofferenti con cui si confronta senza interposizioni e tra i quali deve sapere sbocciare e morire con spirito leggero, se necessario.
Padiglione del Vaticano: Claire Fontaine, “Siamo con voi nella notte”, cortile centrale del Carcere della Giudecca - Marco Cremascoli / La Biennale di Venezia
Per quanto mi riguarda il padiglione del Vaticano 2024 è come se l’avessi già visto, scritto in una intuizione di quelle sfidanti ed epocali e, anche se ho letto di come verranno prodotte le opere da un parterre di artisti che non ha bisogno di presentazioni, l’idea bypassa e supera nella sua stessa concezione ogni opera che ci si possa mettere dentro, è già ogni opera, è tutta l’intenzione, unico viatico dei cambiamenti autentici. Non me ne vogliano gli artisti prescelti che certamente saranno all’altezza del compito, ma questo padiglione potrebbe accogliere chiunque, un idraulico, un falegname, uno spazzino, ogni singolo artista, da quello di strada al più accademico, rivoluzionario, pedante e decorativo senza perdere una sola frazione del suo potenziale rivoluzionario: una Chiesa che esce dalla comfort zone delle mura elette e si immerge nelle fragranze non sempre gradevoli di una umanità che chiede disperatamente ascolto e vicinanza, una umanità che è l’unica ragione della Chiesa stessa.
Il primo atto del cardinale Tolentino alla Biennale trascende le contingenze estetiche inscritte nei confini di un quadro, di una composizione, di una performance, di una scultura, per rivolgere lo sguardo a monte, verso il mistero dove tutte le ragioni dell’estetica e di tutto il resto vengono comprese e assolte dal proprio limite, qualunque sia. La finezza e la forza dirompente e delicata di questa operazione dicono che per certo al dicastero della Cultura è arrivato un poeta autentico, e nessuno era più scettico di me al riguardo. La Biennale di Tolentino vale molto più delle scuse dei vari “taoiseach” (il primo ministro irlandese) proferite a profusione per tentare di rimediare in qualche modo alla realtà feroce delle Magdalene laundries e a tutto il resto. Rinnega l’idea stessa di umanità perduta, da sempre alibi per abusi impronunciabili, custoditi gelosamente nella pavidità complice di tutti.
Le ragazze scaraventate nell’inferno delle lavanderie irlandesi non avevano commesso crimini, colpevoli solo di essere rimate incinte, alla Giudecca è diverso, obietterà qualche contabile di santità improbabili. Non fa alcuna differenza, la novità è un gesto che riscatta la Chiesa stessa, gesto vivo, in fuga dal palazzo come dal sepolcro per risorgere tra coloro che la società marchia ultimi da sempre, che non può non ritrovare nella poesia la sua gemella diversa, l’affioramento, le sue membra, la novità sublima tutte le opere nell’unica opera in cui valga la pena perdersi e ritrovarsi. Il dado è tratto, un dado dalle sfaccettature infinite che gli impediranno di fermarsi, così almeno spero, nel suo rotolare di umanità decidua, nostra salvezza.