Sono passati quasi due anni dal manifesto del Nuovo Realismo, presentato nell’agosto del 2011 sulle pagine di
Repubblica, con cui Maurizio Ferraris ha smosso le acque del dibattito filosofico. Il sasso è stato lanciato in direzione di quel mondo figlio della svolta ermeneutica del Novecento, figlia a sua volta di quella distruzione dell’oggettività sintetizzata dal frammento nietzschiano «i fatti non ci sono, bensì solo le interpretazioni». Per il «pensiero debole», ricordava Ferraris, la realtà non è mai accessibile in quanto tale, visto che è mediata dai nostri pensieri e dai nostri sensi, e per decenni appellarsi ad essa è stato ritenuto filosoficamente vacuo. Questo, con mille sfumature, è stato ed è tuttora il clima del pensiero postmoderno in Italia, simboleggiato da figure come Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, che hanno legato il loro nome, appunto, al cosiddetto «pensiero debole». In realtà è gran parte della filosofia novecentesca ad essersi impantanata con la «svolta linguistica», ossia il primato trascendentale del linguaggio. «Che a tale primato si attribuisse una connotazione analitica come in area anglosassone, ermeneutica in Germania o decostruttiva in Francia – scriveva Roberto Esposito sempre su
Repubblica – l’idea che sottintendeva tale concezione era il carattere linguistico dell’intera realtà», con «il reale risolto in una serie di narrazioni prive di riscontro oggettivo, ma anche la filosofia stessa, dichiarata dai suoi stessi esponenti finita o quanto meno in perenne crisi». Se la natura aborre il vuoto, però, anche il pensiero non sopporta l’indeterminatezza assoluta e diventa inevitabile cercare un appiglio. «Se uno va dal medico – esemplificava Ferraris – sarebbe certo felice di avere solidarietà, ma ciò di cui soprattutto ha bisogno sono risposte vere sul suo stato di salute. E quelle risposte non possono limitarsi a interpretazioni più o meno creative: devono essere corrispondenti a una qualche realtà che si trova nel mondo esterno, cioè, nella fattispecie, nel suo corpo». Rivalutare la possibilità di riconoscere il reale significa quindi rivalutare un’ontologia seppur minima, il fatto che «il mondo ha le sue leggi e le fa rispettare», e la nozione di verità. Aver toccato nervi così scoperti non è stato senza conseguenze. A farsi sentire sono stati diversi nomi dell’italica Repubblica dei filosofi, da Vattimo (
Il postmoderno? Sconfitto ma non fallito) e Rovatti (
L’idolatria dei fatti) che hanno reagito da par loro, a Severino aggrappato al suo Parmenide (
Nuovo realismo, vecchio dibattito, tutto già conosciuto da millenni), giù giù fino a Flores d’Arcais (
Per farla finita con il postmoderno). La
querelle ha regalato anche momenti di surreale metapolitica (
Penati e il pensiero debole, Gravagnuolo) e prove non convenzionali di realismo forte (
E se i black bloc bruciassero la macchina di Gianni Vattimo? Terravecchia). Di fronte alla «baruffa tra torinesi» (Pellizzetti), ovvero Vattimo e Ferraris, c’è poi chi si è fregato le mani: «I postmodernisti si sono pentiti, ma non sanno dove andare», ha scritto sardonico Giuliano Ferrara, che ha avuto buon gioco anche a ironizzare su una delle cause citate da Ferraris per il suo ravvedimento speculativo, ossia il trionfo della manipolazione della realtà da parte dei «populismi mediatici», con dibattito successivo, fra le righe, sulla teoresi migliore per opporsi al berlusconismo. Ferrara che
à la de Sade ha invitato i postmoderni pentiti a fare ancora uno sforzo per essere repubblicani, ovvero realisti: dirsi ratzingeriani, tributando il giusto riconoscimento al Pontefice che ha criticato il relativismo imperante… Ora, a bocce semiferme, si aggiunge alla vicenda una puntata seria e significativa. Si tratta di un libro pubblicato da Mimemis,
Perché essere realisti, una sfida filosofica (pp. 260, euro 20), con saggi di una nutrita serie di realisti convinti, dal filosofo del diritto Pietro Barcellona a un aristotelico illustre come Enrico Berti, a una filosofa della scienza come Franca D’Agostini, fino a un teologo quale Giacomo Canobbio
et alii.A curare il volume sono stati Andrea Lavazza, raro caso di studioso di vaglia di neuroscienze prestato al giornalismo, pioniere in Italia della neuroetica, e Vittorio Possenti, tra i più autorevoli filosofi personalisti contemporanei. Di Possenti è anche il capitolo iniziale che dà il tono al resto del lavoro ed entra più di altri nel merito della proposta avanzata dai neo-realisti e in cui, pur riconoscendo a Ferraris il merito di un risveglio dal “sonno” del postmoderno, mette in luce il respiro corto del nuovo realismo. A partire dall’esigenza politico-morale per cui è stato formulato, almeno da Ferraris, ma soprattutto per il suo rimanere nel solco di quella frattura della conoscenza, di quell’impossibilità di un contatto diretto tra intelletto e mondo sancita da Kant e che segna tutta l’episteme moderna. La filosofia dell’essere a cui Possenti si rifà, soprattutto nell’interpretazione che del tomismo ha dato Maritain, offre una spiegazione del rapporto “intenzionale” con cui l’intelletto coglie l’ente, che resta a suo dire insuperata per profondità. Cruciale è poi per Berti – in sintonia con Possenti – la chiarificazione del fraintendimento moderno della concezione “classica” della verità – nel senso che ha i suoi fondamenti in Platone e Aristotele – ovvero intendere la verità come una semplice corrispondenza, o meglio un rispecchiamento tra mente e realtà, con la mente come specchio in cui la realtà si riflette. La fragilità della proposta neo-realista è messa in luce in modo serrato anche dalla D’Agostini, nelle sue contraddizioni interne che derivano, come per gran parte della speculazione postmoderna, dall’aver dimenticato i parametri logici di quella che Aristotele chiamava «filosofia prima». E se la scarsa attitudine metafisica del neo-realismo rischia di spingerlo verso il riduzionismo naturalistico di certa scienza, la riflessione di Lavazza – che parte da un caso di studio, il realismo scientifico applicato al concetto di felicità – fa capire in quali strettoie deterministiche e materialistiche la presunta fuoriuscita dal relativismo potrebbe portare, se impostata su basi inadeguate.