venerdì 21 gennaio 2011
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Quarantacinque anni fa, il 15 febbraio 1966, don Lorenzo Milani veniva assolto dal Tribunale di Roma dall’accusa di apologia di reato. Al processo ero presente anch’io e la sentenza parve a me, come a molti altri, una pietra miliare nel rinnovamento civile e religioso dell’Italia. I documenti nati attorno alla vicenda processuale – la Lettera ai cappellani militari, la Lettera ai giudici e la stessa motivazione della sentenza – partono dal problema dell’obiezione al servizio militare, ma contribuiscono a un esame critico di tutta la storia nazionale seguita all’Unità d’Italia. Conservano dunque anche oggi molti motivi di interesse. I tre documenti sono stati pubblicati, col titolo L’obbedienza non è più una virtù dalla Libreria Editrice Fiorentina, che ne sta preparando una edizione speciale per il 150° dell’Unità. Il priore di Barbiana era intervenuto un’altra volta sui rapporti dei cattolici con lo Stato unitario. Aveva scritto infatti nel 1958, al termine di Esperienze pastorali: «Tornare al non expedit». Era una delle tre «proposte» che don Milani formulava (senza crederci troppo), per rimediare alle compromissioni causate alla Chiesa dall’incoerente azione politica dei cattolici.  Il non expedit («non giova», «non è conveniente») era stata la risposta data da una Congregazione vaticana, nel 1874, a un quesito sull’opportunità dell’impegno politico dei cattolici nello Stato unitario. Era l’ultimo atto di una reazione difensiva che molti storici giudicano oggi controproducente. Nel 1872 c’era stato il ritiro delle cattedre di teologia dalle università statali. Nelle chiese si cominciò a cantare «Pietà, Signor, del nostro patrio suolo», dove si invocava: «Deh! rendi gloria al nostro Padre Santo / con un trionfo pari al suo dolor». I giornali cattolici uscirono listati a lutto: La Squilla di Firenze – lo ricorda divertito don Milani – continuò così fino al 1929. Il Priore, affezionatissimo alla sua "veste", forse non sapeva che i preti – ma non tutti – cominciarono solo dopo il 1870 a indossare fuori delle chiese l’abito talare (veste "piàna" come segno di fedeltà a Pio IX). Ma don Milani non coltiva nessuno spirito di rivincita o d’arroccamento. Scrive infatti nella Lettera ai giudici: «Dai tempi di Porta Pia i preti italiani sono sospettati di avere poco rispetto per lo Stato. E questa è proprio l’accusa che mi si fa in questo processo. Ma essa non è fondata per moltissimi miei confratelli e in nessun modo per me». Questa professione di lealtà, per don Milani, non è in contrasto con la critica severa all’idea di Patria e alle guerre che ne sono nate, contenuta nella Lettera ai cappellani militari. I giudici romani, nella sentenza di assoluzione, si sentiranno in dovere di ravvisarvi «improvvisazione retorica», «confusione d’idee», «passionalità di giudizio». Ma a don Milani interessava soprattutto smontare le manipolazioni della storia patria fatte dal fascismo. E su questo i giudici gli danno ragione, quando scrivono che «sul tronco di impronta liberale della Statuto Albertino fu possibile innestare, senza alcuna modifica costituzionale, un regime autoritario, contro il quale miglior ventura del popolo italiano sarebbe stata quanto meno una minor collaborazione, per non dire resistenza». Il colpo d’ala della Lettera ai giudici, che la sentenza non nomina ma i cui argomenti sembrano abbondantemente accolti, sta nel chiarire che il testo incriminato era «una scorsa su cent’anni di storia alla luce del verbo ripudia» usato nell’articolo 11 della Costituzione repubblicana. È partendo dal «ripudio» della guerra che don Milani costruisce una discussione appassionata sui fondamenti della convivenza civile, sugli strumenti di lotta alle ingiustizie, sul diritto-dovere di migliorare le leggi, sulla responsabilità connessa a ogni scelta personale. I due testi milaniani contenevano poche novità storiografiche, ma erano la prima revisione storica condotta con linguaggio scolastico e popolare (usando «testi di scuola media, non monografie di specialisti»). In più, l’afflato universalistico del discorso («L’Europa è alle porte [...] I nostri nipoti rideranno dell’Europa») impediva di usare le sue critiche per un rifiuto dell’Unità con motivazioni religiose, etniche, razziali, di egoismo territoriale. Infine, come luogo e motore della riflessione, don Milani poneva la scuola, la quale «siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi», la scuola «che è l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare il loro senso della legalità (...), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè di senso politico». Appare strano, allora, che un analista del calibro di Giuseppe De Rita (su Famiglia Cristiana n. 2/2011) attribuisca a don Milani l’inizio della «dimensione individualistica personale e libertaria che ha caratterizzato gli ultimi cinquant’anni» e lo accusi addirittura di «soggettivismo etico». «Ci voleva una autorità morale come la sua – ha scritto De Rita – per dire che la norma dello Stato è meno importante della coscienza individuale». Piccola domanda: chi ha preparato i cattolici italiani all’obiezione di coscienza contro l’aborto? Ancora il 10 gennaio di quest’anno il Papa ha insistito perché gli Stati riconoscano ai medici il diritto di obiettare alle leggi contro la vita. Don Milani e la sua lezione, presi senza deformazioni e mutilazioni, non escono dal solco della profezia cristiana.
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