martedì 9 gennaio 2024
Un “giovane” 70enne: Paolo Rossi in scena con la sua rilettura pirandelliana si racconta, dagli esordi fino a quest’ultima prova che sa di «esperimento sociale»
L’attore e autore Paolo Rossi in un momento dello spettacolo teatrale  “Da questa sera si recita a soggetto”

L’attore e autore Paolo Rossi in un momento dello spettacolo teatrale “Da questa sera si recita a soggetto” - Laila Pozzo

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Parlare con Paolo Rossi è come una sferzata di bora vitale, piena di ricordi d’arte varia, quelli del giovane 70enne. Un Peter Pan delle scene Rossi che sornione ammette: «Io non sono mai arrivato in ritardo, però troppo in anticipo sì». Questa chiacchierata è cominciata esattamente un anno fa, ai tavoli del ristorante il Vecchio Porco, uno degli ultimi locali storici e orizzontali di questa Milano ultraverticale, ed è ripresa al termine di un risveglio mattutino dell’attore, dopo l’ultima replica trionfale al Teatro Parenti del suo adattamento di Pirandello: Da questa sera si recita a soggetto. Prossima tappa del lungo tour nella natia Monfalcone (venerdì 12 gennaio al Comunale “Marlena Bonezzi”).

Caro Rossi, un successone. «Spettacolo esilarante e travolgente», parola del pubblico mentre sciama dalla sala milanese.

Qualcuno lo ha definito un «esperimento sociale» e mi va bene. Avendo studiato molto Pirandello, io aggiungo che questa è una versione eversiva, e forse al pubblico piace perché trova più Pirandello qui dentro che nelle riduzioni tradizionali e un po’ ordinarie. Del resto tutto cambia. Neanche il teatro è più lo stesso. Nella società dello spettacolo che stiamo vivendo è il teatro che entra nella vita, ma spesso lo fa pesantemente...

Cosa resta di unico e di dirompente nel teatro pirandelliano?

Il “Metodo Pirandello”, come recita il sottotitolo del mio spettacolo. In tutte le sue novelle e anche nelle commedie Pirandello aveva messo in campo delle strategie per stare meglio, per uscire dall’impasse. Poi purtroppo quelle strategie non le ha applicate alla sua vita, ma se lo avesse fatto probabilmente non avrebbe neanche vinto il Nobel. Io, al metodo pirandelliano aggiungo quello del signor Rossi.

Può spiegarcelo?

È semplice, lavori e lavori su un testo come questo, che io pensavo si prestasse molto all’improvvisazione e invece è già tutto scritto. Poi fai prove generali, anteprime e ti accorgi che non c’è un graduale miglioramento in scena, anzi, pensi che ci sia sempre qualcosa che non funziona. Ma una sera, in maniera inspiegabile, ti accorgi che, complice strane sinergie e grazie al clima ideale creatosi con la compagnia, lo spettacolo sboccia e all’improvviso ti appare perfetto. E questa magia è accaduta, alla prima qui al Parenti.

Non poteva essere altrimenti per un artista che è “sbocciato” a Milano.

Lo spettacolo è stato concepito a Trieste, dove dopo essere nato a Monfalcone in un tempo che non ricordo più, ho dimezzato la distanze dal confine slavo, ora vivo a 10 km dalla dogana. E poi tra Trieste e Milano c’è un fil rouge magistrale: i miei maestri Giorgio Gaber e Giorgio Strehler arrivarono a sotto la Madonnina partendo da Trieste. L’altro mio maestro, Enzo Jannacci non era triestino, ma anche nella Puglia delle sue radici c’è quella pietra calcare che si trova nelle nostre terre di bisiacchi. Così ci chiamano i triestini a noi nati in quella lingua di terra bagnata dalla “bisacqua”, i fiumi Timavo e Isonzo. Io però, non solo etimologicamente, mi sento più affine al “bisiach”, che in slavo vuol dire “l’uomo in fuga”.

Anche l’uomo che le ha trasmesso l’amore per il teatro, suo nonno, era fuggito dalla Sicilia.

Mio nonno arrivava da Corleone e sposò mia nonna, una ragazza di Fiume (oggi Rijeka): un’unione tra la lupara e il kalasnikov che rimane un mistero che non è riuscita a svelare neanche mia figlia Giorgia scrivendo il libro Chissà se è vero. Storia forse apocrifa della nostra famiglia. Nonno a Monfalcone aveva fondato una filodrammatica che all’epoca era il teatro fatto da semiprofessionisti e avendo conosciuto personalmente Rosso di San Secondo, grande allievo di Pirandello, mise in scena Stasera si recita a soggetto. Però quando gli dissi che mi sarebbe piaciuto fare l’attore mi convocò d’urgenza nel suo studio e con voce da teatrante retorico mi disse mettendomi la mano sulla spalla: «Paolo, tu suoni bene la chitarra (ero e sono rimasto sempre un onesto strimpellatore) e poi il futuro è nel chimico». Lui lavorava alla Solvay, mio padre pure, e io se non avessi trasgredito al consiglio del nonno da perito chimico ero destinato a seguire le loro orme.

E invece ha deviato sul mestiere dell’attore: ma come è cominciata l’avventura sulle scene?

A Ferrara, dove vivevo in un crocevia tra la parrocchia in cui inizio a montare i primi spettacoli, il bar sport e un circolo anarchico. Saltabeccavo leggero da un posto all’altro. Quando poi mi sono spostato a Milano il bar sport era un po’ equivoco, la parrocchia giusta non la trovai e così sono finito in Lotta Continua. Ma con i compagni fui subito chiaro: io alle manifestazioni non mi metto in prima fila. Quindi mi buttai sul teatro, spettacoli in cantina, nelle case e nelle fabbriche occupate… Poi sono passato ai corsi serali del Piccolo Teatro dove si faceva commedia dell’arte e laboratori stile Living Theatre che mi hanno forgiato e permesso di attraversare indenne gli anni di piombo, che io da perito chimico considero come Erri De Luca «Anni di rame». Il rame è un ottimo conduttore, anche di creatività.

Oltre a quella del Piccolo è entrato anche nella grande scuola teatrale di Dario Fo.

Un gigante oltre il Nobel, diventato genio solo post mortem perché da vivo l’avevano bollato come “troppo irregolare”. Dario Fo era un generoso, mi dava consigli da cassetta degli attrezzi che con il tempo ho imparato a utilizzare sempre meglio. Gli ultimi anni Dario mi impressionava per la resistenza fisica sul palco, oggi so che mentre da giovane sprechi tanta energia, a una certa età invece lavori in surplace, come faceva lui: sembra che hai più energia di quando ne avevi in eccesso. Devo ringraziare Dario Fo e quei maestri che ho incontrato da giovane, perché mi hanno permesso di entrare e restare nel teatro e fare la vita del “ladro” che agisce alla luce del giorno. Se avessi avuto il coraggio di fare una rapina non avrei fatto il teatro, che poi è la stessa cosa, anche chi va in scena come me pensa ad ogni replica: «Faccio l’ultimo colpo e poi basta!». E quando mi chiedono: ma come si fa a portare i giovani in teatro? Allora gli rispondo: è semplice, basta proibirlo.

Quando passa al cabaret, al Derby con l’allegra brigata jannacciana, in platea c’erano anche ladri e criminali.

Una sera ebbi l’ardire di fare al tipo seduto in prima fila: scusi, ma lei non ride? Quello si mise la mano nella tasca della giacca, tirò fuori il “ferro”, la pistola, e la mise sul tavolo dicendomi con sguardo truce: «No, non mi fai ridere». Io ci pensai su un attimo, poi con fare altrettanto duro gli risposi: d’accordo, lo spettacolo finisce qui. E me ne andai, devo dire leggermente sudato. (sorride divertito)

Sembra una storia degna di una canzone di Enzo Jannacci…

Enzo era un mondo, un uomo dolce, l’amico migliore che però all’occorrenza sapeva diventare anche insospettabilmente “animalesco”. Tipo quella volta che uscendo da un locale ci imbattemmo in un dobermann ferocissimo che ci sbarrava la strada. Io ero terrorizzato, Enzo invece che fa? Si avvicina, calmo, prende il muso di quella bestia tra le mani e con un tono che non ho mai dimenticato e credo neanche il cane, gli dice: «Se non ti sposti ti succhio il cervello dall’orecchio». Quel giorno ho imparato che, nella vita come in scena, il tono è tutto. E più di quello che dici, conta sempre come lo dici.

Con Jannacci avete fatto anche Sanremo.

Ne ho fatti cinque di Festival, l’ultimo con Lo Stato Sociale, e non è poco per uno che non sa cantare. Io non canto, recito le canzoni, sono la Marlene Dietrich del teatro italiano (ride di gusto). Jannacci è stato il più grande dei nostri cantautori e quando andava a Sanremo faceva finta che non gli importava niente, poi però dietro le quinte guardava la classifica parziale e mi diceva: «Paolo, non dico vincere, ma almeno arrivare in Coppa Uefa». E con I soliti accordi ci riuscimmo, ci piazzammo al quinto posto. Ma la sua filosofia era chiara: «Meglio un fiasco trionfale che un successo sobrio». Era anche un grande attore, peccato che abbia fatto pochi film. Eppure ne L’udienza di Marco Ferreri è un protagonista fantastico: interpreta Amedeo, ufficiale in congedo che va a Roma per parlare con Paolo VI…

Potrebbero dire lo stesso di Paolo Rossi, tanto teatro ma pochi film.

Ho recuperato un po’ da quando sto a Trieste, ne ho girati diversi: il docufilm su Enzo Jannacci (Vengo anch’io), Gloria (in uscita) ambientato nella Venezia di fine ‘700, Appunti di un venditore di donne, Acqua e anice, L’uomo senza colpa - film sulle vittime dell’amianto a Monfalcone - e Fantasmi in viaggio,pellicola greca che ha vinto il festival di Atene. Ho lavorato in diversi film comici e non li rinnego ma non mi divertivo a farli, mentre dopo una vita da outsider del cinema ho scoperto che funziono e mi diverto pure nelle commedie agrodolci.

Però il teatro rimane il suo eterno rifugio.

Il teatro mi ha salvato da robe brutte, perché è la mia passione. E una passione qualsiasi essa sia, ti salva sempre. Ai ragazzi nei miei laboratori teatrali ricordo sempre che non conta diventare il numero 1, conta avere la passione per far sì che quella cosa che fai la sai fare solo tu. Il teatro è una scommessa quotidiana. Un giorno mentre eravamo in tournée con Enzo (Jannacci) un tizio ci propose se volevamo scommettere investendo qualche soldo in Borsa. «Ma noi scommettiamo tutte le sere andando in scena», gli abbiamo risposto. Enzo comunque comprò qualche azione, ma dopo due giorni, vedendo che perdeva, ritirò subito la somma…

Quanto tempo investe sui social?

Ho imparato ad usarli un anno fa, esclusivamente per promuovere i miei spettacoli. Uso quello che c’è di buono nel mezzo, dato che non vivo di contributi ministeriali. I social sono il passaparola più veloce che c’è con cui elimino i manifesti appesi al muro che nessuno guarda più e mi permette di rivolgermi direttamente al pubblico. Poi certo, l’altra faccia della medaglia, quella dell’abuso del mezzo social, è più grossa. Lo diciamo sottovoce, tra di noi… ma tutto questo accade perché c’è “troppa libertà”… Da ragazzo vidi Il fantasma della libertà di Luis Buñuel, un capolavoro: il film iniziava con la riproduzione cinematografica del La fucilazione di Goya e i condannati prima di venire fucilati gridano: «Abbasso la libertà!». Allora non capii il significato di quel grido, ora mi è tutto chiaro. Non c’è nessuna cosa nella natura umana che sia nociva o positiva, è solo questione di dose.

Oltre a quella per l’Inter c’è un’altra fede nella vita del signor Rossi?

L’Inter è una fede verso un’entità geneticamente pazza che domino da pessimista strategico: non fasciarti la testa prima, ma nell’attesa la fasci comunque. Quanto all’altro Credo, penso che siamo su un treno, ci hanno prenotato la vacanza, ma non sappiamo dove arriveremo e fino a quando potremo restare. Nel frattempo nella valigia ci metto qualche libro, una chitarra acustica e un po’ di foto, che non si sa mai. E poi tutti gli insegnamenti di quelli che mi hanno voluto bene a cominciare da mia nonna che in punta di morte mi disse: «Paolo, ricordati, meglio debiti che crediti»… Poi ho capito che cosa intendeva dire: ci ha lasciati pieni di debiti. Ma magari aveva ragione lei...

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