mercoledì 28 agosto 2024
Lo studioso Usa, consulentedel Pentagono,si ricrede sull’appoggio dato alla guerra in Iraqdel 2003, che ha portato solo instabilità. E indagasu una nuova idea di democrazia
La Torre Azadia Teheran, voluta dall’ultimo sciàdi Persia, nel 1971

La Torre Azadia Teheran, voluta dall’ultimo sciàdi Persia, nel 1971 - Omid Armin/Unsplash

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Poco più che settantenne, il politologo e geopolitico Robert Kaplan – stretto collaboratore del Pentagono, per quanto apparentemente in disparte – è da anni negli Stati Uniti uno dei più assidui e ascoltati “consiglieri del Principe”. Un suo saggio edito da Marsilio in edizione italiana nello scorso anno, La mente tragica. Paura, destino potere nella politica contemporanea, ha suscitato un qualificato interesse. Ma Il Grande Medio Oriente. Viaggio al centro della storia tra impero e anarchia (traduzione italiana di Nausikaa Angelotti e Daniela Marina Rossi, Marsilio, pagine 446, euro 24,00), già annunziato attraverso la pubblicazione di ampi estratti su riviste quali il “National Geographic” e la “Foreign Policy”, appare destinato – in un momento nel quale i libri invecchiano e scompaiono in un batter d’occhio – a rimanere a lungo nelle bibliografie specialistiche e negli elenchi delle letture d’esame per studenti universitari. Per quanto la sua notorietà come studioso sia da anni molto solida, l’ampiezza e la profondità delle conoscenze registrate e trasmesse in Il Grande Medio Oriente sono sorprendenti. Un recensore attento come Colin Robertson è senza dubbio riduttivo quando definisce Kaplan semplicemente come un “giornalista”.

Eppure, una volta tanto, ci si trova costretti a dover discutere proprio cominciando dal titolo. Esso, nell’originale edizione inglese, suona The Loom of Time: Between Empire and Anarchy, from the Mediterranean to China. L’espressione The Loom of Time, difficile da tradursi, è da Kaplan ripresa da Arnold Toynbee e si può tradurre Il telaio del tempo: un’immagine che rinvia al Faust di Goethe; ma si potrebbe tradurre altresì come “l’incombere del tempo”. Quanto al sottotitolo, il Between Empire and Anarchy, from the Mediterranean to China, è stato volto in italiano come Il Grande Medio Oriente; espressione ambigua, dal momento che la trattazione di Kaplan riguarda in parte l’Africa, che “Medio Oriente” non può essere certo definita; e accompagnata da una modifica del resto, in quanto nella nostra lingua esso risulta Viaggio al centro della storia tra impero e anarchia.

Potrebbe sembrare la solita storia del “traduttore-traditore”, ma non è così. La chiave di quello che va inteso non già come un “tradimento”, bensì come un esperimento interpretativo sta nell’importanza che Kaplan attribuisce alle tesi di Halford Mackinder, che ai primi del secolo scorso parlava dello Heartland (l’entroterra dell’Eurasia), e di Nicholas J. Spykman, che alla metà di esso gli contrapponeva il Rimland (lo spazio navigabile circostante il macrocontinente asiatico). Secondo Mackinder, chi avesse controllato lo Hearthland tra Europa orientale, Iran e Asia centrale avrebbe dominato “l’isola-mondo” afroaeurasiatica; ma Spykman, focalizzandosi sul Rimland, non diceva in fondo nulla di diverso. Il “Grande Medio Oriente” di Kaplan è appunto quell’area ancor oggi contesa e percorsa da un caos politico che a noi può sembrar disperante: e non a caso (ma il lettore italiano sulle prima se ne chiede il perché) il prologo del libro è dedicato a “La Cina nei nuovi contesti imperiali”, il primo capitolo a “Tempo e territorio”e l’epilogo a “Un difetto di immaginazione”: dove con grande onestà e lucidità Kaplan confessa di aver appoggiato anch’egli l’invasione americana dell’Iraq nel 2003 (e questo lo ricordavamo anche noi), ma di essere stato incapace di prevedere il caos che ne sarebbe seguito.

E ciò lo porta a una severa critica al generalizzato desiderio occidentale di veder tutto il mondo guidato dalla «democrazia parlamentare» e all’invito a valutare con più maturo realismo l’esistenza di «regimi consultivi», che «ascoltano e considerano l’opinione pubblica pur in assenza di elezioni». Sempre meglio di regimi «arbitrari», di «dittature», conclude lui.

Ma, replichiamo noi, forse Kaplan nella sua critica non arriva al fondo della questione: non osa ammettere che le cosiddette “democrazie autoritarie” – troppo spesso derubricate a “dittature” o a “tirannidi” – hanno una capacità d’intendere e di ascoltare i loro popoli per quanto ne restringano le libertà individuali; e che tutto ciò dipende essenzialmente non solo dalle differenti strutture dei vari paesi, ma anche e soprattutto dalla loro storia.

E in effetti nel corso della lettura di questo libro affascinante, in cui le riflessioni dello studioso s’intrecciano con l’esperienza del grande conoscitore diretto di vasti territori, le pagine più rivelatrici sono quelle che esaminano le monarchie arabe “del Golfo”, l’Etiopia, l’Iran: paesi nei quali grandi eventi rivoluzionari non hanno tuttavia scosso un suolo e un sottosuolo politico-tradizionale a suo tempo foggiato da grandi imperi come il primo Islam, l’esperienza millenarie dei negus cristiani dominanti un mosaico di genti e di religioni, la grande sequenza di buoni governi persiani dagli achemenidi antichi ai safavidi cinque-settecenteschi.

Le osservazioni di Kaplan, ben appoggiate ai risultati antropologici di studiosi come Geertz o Levine, possono talora sembrare ciniche e talaltra giustificatorie nel considerare passate scelte statunitensi, ma debbono essere valutate non loro significato intrinseco. Non è necessario accettarne sempre il punto di vista, anzi: ma conoscerne e considerarne le ragioni, questo sì.

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