«Il visconte François-René de Chateaubriand nacque il 4 settembre 1768 a Saint-Malo sull’Atlantico. La sua infanzia e la sua adolescenza trascorsero sulle sponde del grande mare ed in mezzo all’aperta campagna: egli si abituò così alla contemplazione della natura e assorbì l’infelicità e la poesia della solitudine». È l’inizio della nota che Oreste del Buono scrisse all’edizione del 1950 della Biblioteca Universale Rizzoli dei tre romanzi del grande scrittore romantico francese:
Atala, René e Le avventure dell’ultimo Abenceragio. I primi due facevano parte integrante dell’enorme
Genio del cristianesimo ora ritradotto nei “Millenni” di Einaudi a cura di Mario Richter, con attenzione critica e precisione partecipe (pagine 878, euro 90). Opera seconda, se vogliamo, maturata dopo il
Saggio sulle rivoluzioni (1796) e apparsa per la prima volta nel 1802. L’osservazione di Oreste del Buono è una sintesi efficace del personaggio François-René, l’
Enchanteur, una sorta di assoluto romantico. Ma cristiano, di un cristianesimo del cuore che riscatta, attraverso la sua scrittura smagliante e pressoché perfetta, la tavolozza variopinta del sentimento della fede popolare come forse nessun altro è riuscito a fare nella modernità post-illuministica. L’uomo François-René non ha solo corso i mari in tempesta, le terre bagnate dal sangue dei rivoluzionari e dei refrattari; non solo ha visto le teste mozzate, anche in famiglia, rotolare giù dal patibolo, è riuscito anche a raccoglierne il rantolo nell’estrema speranza. Ha assorbito sì la precaria felicità della poesia e l’infelicità definitiva della Storia, ma non si è mai dimenticato dell’estrema vecchiaia del mondo e dei cristiani nel secolo, ai quali ha voluto offrire la propria voce nella convinzione che ad essi mancasse più che il cartesiano ragionare, il discorrere di un cuore in tumulto.Il visconte di Chateaubriand non è un semplice reazionario legittimista, è colui che ha dissodato la terra in cui è vissuto (l’Europa) e il mare su cui ha viaggiato alla ricerca di ciò che in entrambi si radica, con la forza dell’espressione e la semplicità del popolo, nella fede e nel linguaggio.Come quando di fronte alla tempesta imminente, sulla tolda della nave in bonaccia nel mare della Virginia, il capitano e i marinai immobili cantano
Je mets ma confiance, l’invocazione bretone a Maria: «Davvero si sarebbe dovuto compiangere chi, in un simile spettacolo, non avesse riconosciuto la bellezza di Dio. Spontaneamente mi sgorgò dalle palpebre qualche lacrima quando i miei compagni togliendosi i cappelli cerati, si misero a intonare con voce rauca il loro semplice cantico a Notre-Dame de Bon-Secours, patrona dei marinai».Ecco, il «genio» del cristianesimo è anche questo tener fede nell’estremo pericolo all’invocazione, è questo fermarsi sui legni e nell’ora presente volgere lo sguardo al futuro chiedendo soccorso, riconoscendo la propria fragilità creaturale.Tutto questo suona molto romantico? Troppo, forse? Insostenibile? Sarebbe però negare che si possa dire bene della fede dell’uomo, di ogni uomo. È lo scrittore che vince sulla fede o è la fede che si impone allo scrittore? In entrambi i casi si avrebbe qualcosa di incompleto, continua lo scettico. Ma quando accade, ed è così per tutte le ottocento pagine del libro, che fede e scrittura divengano la stessa cosa allora possiamo accettare che il miglior argomento in difesa del cristianesimo sia quello che fonda il cristianesimo nel cuore degli uomini. Basta per il nostro oggi? No, sembra non bastare, ma solo perché quel cuore ci è stato strappato.
Il canto bretone “Je met ma confiance” citato da Chateaubriand, può essere ascoltato al link http://lettureinrefettorio.tumblr.com/post/103669076228/je-mets-ma-confiance-cantata-dal-coro-au-choeur