Spesso la storia ce l’abbiamo in casa. In scatoloni pieni di foto, in libri, diari. Ma soprattutto negli anziani che abitano con noi, ai quali spesso non chiediamo cosa hanno vissuto quando la loro storia personale si è incrociata con la Storia. A volte sono loro che non hanno voglia di parlarne. Ma in alcuni casi la ritrosia cede il passo alla voglia di testimoniare. E ne nascono narrazioni emozionanti. Così è per il documentario Il ragazzo con il libro sotto il braccio, opera prima del giovane regista di Latina Simone Menin, che va in onda stasera alle 21, 50 su History Channel (canale 411 di Sky). Al centro c’è il racconto delle vicende del nonno, Nildo Menin, uno dei circa 800mila Imi (Internati militari italiani) costretti a lavorare per la Germania nazista alla fine della Seconda guerra mondiale. Ma è anche la storia di un nipote che crede di conoscere tutto della vita del nonno e invece scopre che il suo passato più remoto gli è del tutto sconosciuto e che il tempo che resta per farselo raccontare è poco. Un vero passaggio di testimone, reso ancora più struggente dal fatto che Nildo è morto a 98 anni l’1 agosto scorso, il giorno dopo la prima del video al festival del cinema sull’Isola Tiberina a Roma.
«Sapevo che in gioventù era stato un carabiniere, che aveva vissuto gli anni della bonifica della palude pontina e del regime fascista, ma non come fosse finito in Germania e perché fosse stato prigioniero», racconta Simone Menin. Anche in famiglia di quel vissuto doloroso si era parlato poco. Un giorno è stato proprio nonno Nildo a tirare fuori dal cassetto il diario da lui scritto durante la prigionia e a farlo leggere al nipote. È iniziato così questo viaggio nella storia. Con i Menin anche lo spettatore ripercorre le traversie di un 19enne veneto del secolo scorso deportato dopo l’8 settembre del 1943 e costretto ai lavori forzati in Germania nelle condizioni più umilianti. Nildo racconta della vita da internato, i bombardamenti, della lotta quotidiana per sopravvivere, della società alternativa all’interno del campo, delle notizie via radio sulle sorti della guerra, delle lettere scritte alla futura moglie, mai partite. Infine, del ritorno a casa.
Il titolo deriva dall'appellativo con cui i compagni di prigionia chiamavano Nildo, che aveva il suo prezioso diario sempre con sé. Simone ne ha fatto un libro da distribuire alle proiezioni che presto sarà scaricabile in e-book, con il titolo La mia vita in prigionia, dal sito del documentario, in preparazione. Gli storici italiani e tedeschi interpellati dal regista sottolineano come sia raro che documenti del genere si siano conservati, viste le condizioni della prigionia. E anche come gli Imi - la cui storia di resistenza è ancora poco nota - solo per il 10% aderirono alla proposta di continuare a combattere per i nazifascisti, circa 650mila, tra i quali Nildo, si rifiutarono. In 50 mila non tornarono più a casa. Il documentario - prodotto dalla Wow Tapes di Simone Menin e dei soci Fabio Reitano, Giuseppe Lombardi e Chiara Sardelli - alterna il racconto in prima persona del protagonista alla lettura del diario (accompagnata da animazioni grafiche) e a immagini d’epoca. A rendere plastico il racconto contribuiscono interviste a storici italiani e tedeschi e un reportage sui luoghi della prigionia in Baviera. Come a Moosburg, dove un’associazione tiene viva la memoria dello Stalag VII A. E uno studioso tedesco ricostruisce anche la storia della fabbrica Neumayer di Monaco dove Nildo è stato impiegato come Zwangsarbeiter, lavoratore coatto. «Siamo felici di poter collaborare con una realtà giovane come Wow Tapes e di poter dare luce a storie così importanti per la memoria del Paese», il commento di Simone D’Amelio Bonelli, VP Regional Director di History Channel.