giovedì 2 giugno 2011
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Si dice che, per quanto riguarda le scoperte scientifiche, per progredire di un passo infinitesimo siano oggi necessari investimenti sempre più faraonici, mentre anche solo cento anni fa grandissime invenzioni sono state realizzate con strumenti modesti, in laboratori individuali: quando si arriverà a dover investire talenti e somme insostenibili per avanzamenti insignificanti, allora sarà il caso di cercare un nuovo modello di scienza, perché quello corrente avrà dimostrato di non poter più espandere i propri confini. È la sensazione che si prova visitando questa Biennale veneziana – la 54°, a 116 anni dalla prima – affidata alla svizzera Bice Curiger. Non c’è nulla di sbagliato, in questa Biennale, e in queste scelte: con la precisione che lo stereotipo attribuisce agli svizzeri, Bice Curiger ha agito al meglio, con una correttezza politica e intellettuale ineccepibile, e il mondo dell’arte si è ancora una volta riunito tutto a Venezia, in una ritualità fatta di convenevoli, di commenti banali ma dovuti, di feste e festicciole in giro per palazzi aperti per l’occasione, e scanditi – sempre – da profondissimi dolori alle estremità inferiori: 89 partecipazioni nazionali sono un record assoluto (due anni fa erano solo 77), mentre gli 83 artisti scelti coraggiosamente dalla Curiger per rappresentare lo scenario dell’arte attuale sono quasi tutti giovani o giovanissimi (ben 32 sono nati dopo il 1975), con una forte presenza femminile (trentadue), a significare che il 'carrozzone' ha ancora il suo fascino, e che Venezia «è sempre Venezia», a dispetto delle decine e decine di altre biennali sorte in tutto il mondo negli ultimi vent’anni (a proposito, si presenta oggi la prima Biennale indiana, prevista per il 2012…). E allora? Perché questa sensazione di déjà­vu? Qualcuno potrebbe dire che dopo aver visto almeno tutte le ultime quindici biennali la colpa potrebbe essere della stanchezza di chi scrive, ma assicuro i lettori che non ho (quasi) mai l’atteggiamento di chi ha visto troppo o, peggio, tutto, e che mi fido dei giovani, come delle persone della mia età (la Curiger, per esempio…). Di più, si sa che oggi la novità in arte è al massimo una 'variante' su modelli linguistici dati – con le debite, poche eccezioni, naturalmente – e che quindi ci accontenteremmo di rilevare almeno alcune di queste varianti, che per la verità ci sono, ma sempre più delegate allo sforzo di chi guarda, oppure cancellate da un potente impatto scenografico, fatto di installazioni degne dell’Arena di Verona, cioè imponenti, costose, abbacinanti, sorprendenti ma non durature nel senso della sorpresa, che poi è come dire che hanno poca sostanza. Ma procediamo con ordine, e per inevitabili generalizzazioni, perché è ovvio che bisognerebbe considerare le vicende personali di ciascun artista, la sua produzione complessiva, motivazioni e pulsioni, eccetera eccetera, ma ciò che si ricava è una sorta di koinè artistica che sembra costituire il peggior esempio di globalizzazione. Di fatto, le scelte della Curiger tengono conto – e molto – dell’ibridazione, della confusione babelica dei linguaggi, dell’identità e dell’appartenenza, attraverso artisti che spesso sono cresciuti in un luogo e poi si sono trasferiti in un altro, portandosi dietro la loro cultura nativa. E non è colpa loro se ciò che ci mostrano forse lo avevamo visto, con poche differenze, almeno dalla metà degli anni Novanta, fatto da artisti di altre generazioni: l’anagrafe è un dato ineludibile. Ma se il tempo – cioè le generazioni anagrafiche degli artisti – non ha fatto che affinare, ripetendo, per esempio, motivazioni sociali fatte di fotografie di diseredati e di denunce politiche di ciò che non funziona nel mondo, oppure ha perfezionato linguaggi – come quello del video – che tendono a sfuggire al loro campo disciplinare – l’arte – per raggiungere quelli più produttivi e più popolari, come il vero e proprio cinema (sono molti i video che hanno la dignità realizzativa, ed economica, del cinema vero e proprio…), forse lo spazio – cioè la ricerca di altri luoghi, di altre latitudini – potrebbe essere d’aiuto nella ricerca di qualcosa di nuovo. In altre parole, si cerchi il nuovo nelle culture nuove, che si affacciano adesso alla ribalta. La Curiger non si è affatto sottratta a questo, e in effetti il desiderio di un 'altrove' che ha l’aroma dell’esotico si ritrova anche in chi è il protagonista di quell’esotismo, vale a dire gli artisti dei paesi cosiddetti emergenti (l’India, per esempio, o gli Emirati Arabi, mentre l’arte cinese è già perfettamente sovrapponibile a quella dichiaratamente occidentale), ma questa aspirazione è talmente scoperta da non aver avuto il tempo di elaborare linguaggi forti, davvero 'diversi'. E dunque? Meglio affidarsi alle individualità, come quella del giovanissimo argentino (classe 1980) Adriàn Villar Rojas, che nelle sue monumentali sculture che sembrano rovine della Modernità, almeno mostra il desiderio di 'far grande'. Se poi qualcuno volesse sapere qualcosa del Padiglione Italia, curato da Vittorio Sgarbi, dirò – parafrasando Karl Kraus, che si riferiva a un personaggio ben più nefasto (era Adolf Hitler…) – che «…a proposito di Sgarbi non mi viene in mente niente».
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