mercoledì 3 febbraio 2021
Parla la suora economista e filosofa, che individua il punto critico dell’attuale sistema: chi fa affari e soldi non può farlo soltanto per il profitto a danno di tutti e avvelenando la terra
Suor Cécile Renouard

Suor Cécile Renouard - -

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Docente all’École supérieure des sciences économiques et commerciales, all’Ecole des Mines, a Sciences Po e al Centre Sevres, Cécile Renouard è una suora filosofa molto competente in materia economica. Con lei – intervenuta al recente Francis Economy voluto da Francesco – affrontiamo la parola “etica” nel suo rapporto con l’economia.

Lei ha molto riflettuto sui legami fra etica e impresa. Un capitolo di un suo saggio si intitola provocatoriamente “Il capitalismo può essere morale?”. Cosa risponde?

Il capitalismo può essere definito come una pratica – lo sfruttamento indefinito delle risorse naturali – articolato in una retorica che consiste nell’attribuire all’accumulazione del capitale il ruolo di motore della crescita, e dunque della prosperità economica. Questa pratica è insostenibile e questa retorica sbagliata. Se si accetta tale definizione, il capitalismo non è moralmente neutro, come affermano alcuni, per esempio il filosofo André Comte-Sponville. Si tratta di riconoscere l’impasse dei nostri modelli economici predatori, e di riflettere sui modi con cui le organizzazioni capitaliste possono essere regolate in modo da contribuire a obiettivi etici, che promuovano la giustizia sociale ed ecologica. Esistono varie forme di capitalismo: quello finanziarizzato, a breve termine, associato a pratiche estrattiviste e consumeristiche, è particolarmente problematico. Un’altra difficoltà è legata alla privatizzazione delle istituzioni e a una deregulation generalizzata, come con Reagan e la Thatcher negli anni Ottanta. La prospettiva etica dovrebbe andare di pari passo con lo sforzo di analizzare il funzionamento delle istituzioni e promuovere le trasformazioni (giuridiche e strutturali) che permettono una migliore adeguamento con i principi di giustizia riconosciuti nella società.

Nei mesi scorsi è uscito per Einaudi Il trionfo dell’ingiustizia. Come i ricchi evadono le tasse e come fargliele pagare. In un suo testo lei denuncia il caso di una filiale Apple che nel 2012 avrebbe versato imposte per lo 0,05% su un profitto di 22 miliardi di dollari. Come sono possibili fatti del genere?

Le prassi di ottimizzazione fiscale ed evasioni fiscale sono oggi ben identificate e gli Stati che non sono paradisi fiscali hanno cominciato a legiferare su queste pratiche, in particolare per le multinazionali conosciute con l’acronimo GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), il cui potere e influenza sono considerevoli. La posta in gioco è importante e riguarda il nostro modo di concepire la creazione e la condivisione della ricchezza su scala internazionale. Potremmo agire a diversi livelli, sia da un punto di vista contabile che fiscale. Si tratta di impedire il trasferimento di profitti realizzati in certi territori verso zone fiscalmente vantaggiose. Negli ultimi anni sono state fatte diverse proposte che propugnano l’instaurazione di un plafond comune per l’imposizione fiscale sui benefici a livello europeo. Si dovrebbe arrivare a un consenso sulle questioni fiscali, mentre invece i dispositivi della direttiva Ue non sono ancora all’opera. Si tratta di rifiutare la logica secondo la quale l’unica cosa importante per un attore privato sarebbe massimizzare in ogni modo il profitto. Questo suppone che gli Stati debbano cooperare per trovare insieme le giuste regole del gioco per tutti, andando in controtendenza rispetto al farsi concorrenza per attirare capitali senza prestare attenzione alle conseguenze dannose per altri Paesi. L’Ocse ha pubblicato alcuni rapporti su questo rilevando che l’ottimizzazione fiscale può essere legale ma illegittima rispetto alla posta in gioco dell’interesse generale. Eppure, Paesi come l’Irlanda hanno costruito il loro sviluppo economico sull’ottimizzazione fiscale e non sono intenzionati a cambiare musica…

Lei ha lavorato con grandi imprese presenti nel Sud del mondo con investimenti importanti, basta citare Total, per cercare una loro azione responsabile in tali contesti. Dalla sua esperienza, è possibile ottenere responsabilità sociale vera da imprese del genere?

Piuttosto che “responsabilità sociale d’impresa”, preferisco usare l’espressione “responsabilità sistemica”: si tratta di mostrare come l’impresa non è responsabile solo delle pratiche rispetto ai dipendenti diretti, o nella misura in cui rispetta le norme ambientali o elargisce donazioni caritatevoli alle comunità locali vicine ai propri luoghi di produzione. Come afferma la nuova dicitura della Commissione europea dal 2011, «la padronanza dell’impatto» implica di radiografare i diversi effetti dell’impresa, diretti e indiretti, sull’insieme delle parti prese in considerazione, per tentare di evitare o limitare al massimo i danni che essa può generare, e contribuire a ripianare o compensare eventuali fatti negativi che ha creato, per esempio rispetto al legame sociale o al clima. In Francia, con la legge sul dovere di vigilanza del 2017, ogni anno i grandi gruppi devono rendere conto sul modo in cui si organizzano per non diventare complici della violazione di diritti fondamentali nella loro sfera di influenza. Diversi paesi, a seguito di questa legge, stano riflettendo su come decidere la stessa cosa sotto la pressione della società civile. E da diversi anni si discute in ambito Onu di un trattato stringente per le multinazionali. È paradossale che l’Ue, che dovrebbe difendere i diritti umani, non appoggi questo progetto per le pressione delle lobby finanziarie e industriali…

Un altro suo saggio analizza il rapporto tra aziende e clima. Il rispetto dell’ambiente è preso in carico dalle grandi imprese o restano sorde?

Sempre di più le imprese, almeno quelle occidentali, riconoscono la realtà del cambiamento climatico, la perdita della biodiversità, l’inquinamento di aria, acqua e suolo, e il contributo necessario che esse devono dare per preservare l’ambiente. I finanziamenti dei “climascettici” da parte dei “mercanti del dubbio” possono ancora esistere ma nel complesso le imprese intendono giocare un ruolo per evitare un mondo inospitale per gli esseri umani. Nel 2018 è stata votata una legge in Francia che riforma l’articolo 1833 del Codice civile che definisce il ruolo dell’impresa di fronte alla posta in gioco sociale e ambientale. Dal Forum per la stabilità finanziaria è arrivato anche l’appello alle imprese a rendere nota la loro impronta ecologica. Si è ancora ben lontani dall’integrazione sistematica, insomma.

Qualche tempo fa l’economista Antonin Pottier ha pubblicato un testo dal titolo intrigante, Come gli economisti riscaldano il pianeta. Qualcosa è cambiato con il movimento green di Greta e l’appello di Francesco nella Laudato si’?

I giovani giocano un ruolo molto importante con le loro pressioni sui dirigenti economici e politici perché non si rifugino dietro dichiarazioni teoriche sul dopodomani; dobbiamo riconoscere che il modo in cui oggi viene insegnata l’economia fa a pugni con una presa in carico seria delle sfide ecologiche e sociali. Nel 2017 ho co-fondato il Campus della Transizione a Forges, località a 80 km da Parigi: è un’associazione che raggruppa ricercatori e insegnanti, studenti e lavoratori, un ecoluogo in cui abito con una trentina di studenti e lavoratori, in stretto legame con il territorio. Accogliamo corsi di scuole di ingeneri, manager e diverse università, insieme a istituti superiori che intendono cambiare il loro insegnamento. Abbiamo riunito 70 ricercatori per scrivere il Manuale della Grande Transizione, uscito a ottobre: un lavoro collettivo per cambiare i nostri modi stili di vita. Il cammino è lungo ma abbiamo le risorse a disposizione. Come afferma Francesco in Ritorniamo a sognare, bisogna sperare che la crisi del Covid-19 ci permetta di operare una profonda conversione ecologica e sociale.

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