Amos Cassioli, "Il bacio fra Paolo e Francesca" - archivio
L’etimologia è una scienza capricciosa: quanto più è inesatta, tanto più pretende di essere illuminante. Tecnicamente si chiamano “paretimologie”, corrispondenze superficiali dalle quali si prova a distillare il significato più autentico delle parole. Una delle più suggestive è suggerita da Andrea Cappellano nel De amore. Il sostantivo amor deriva dal verbo amo, ovviamente, ma a sua volta amo rimanda all’hamus, l’amo o gancio dal quale gli amanti fatalmente vengono catturati. Composto sul finire del XII secolo, il De amore è uno dei principali riferimenti per la dottrina dell’amor cortese e successivamente dello Stilnovo. L’immagine dell’amo si presta bene, in particolare, a descrivere la concezione che Guido Cavalcanti affida alla canzone Donna me prega, dove amore è descritto come «accidente – che sovente – è fero». Conseguenza e non causa né tantomeno sostanza, per Cavalcanti l’amore è questione di azione e reazione fisica, di “spiritelli” che attraverso gli occhi si impossessano della volontà dell’amante, sottomettendolo all’amata. Sicut piscator astutus, commenterebbe Andrea Cappellano: come un pescatore che sa il fatto suo. Se la definizione del De amore è celebre, ancor più famosa è la versione che ne fornisce Dante nel canto V dell’Inferno. Si tratta del citatissimo «Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende» con il quale Francesca si riferisce alla passione per il cognato Paolo. Uno dei testi della letteratura italiana più frequentati e commentati di sempre, avverte Maria Antonietta Terzoli in premessa alla sua bella lettura del canto V compresa in Voci sull’Inferno di Dante (Carocci, tre volumi di complessive pagine 1.064, euro 135,00), eppure ancora esposto a equivoci. Il più frequente consiste nel pregiudizio per cui, dando la parola a Francesca (ma forse anche a Paolo, secondo un’ipotesi che Terzoli prudentemente sostiene), Dante la elevi a eroina dell’amor fou, irriducibile a ogni convenienza sociale e a ogni scrupolo religioso. Ma se così fosse, perché condannare Francesca alle pene infernali? Perché non riservarle una sorte più benigna, come quella che in Paradiso toccherà alla non meno sensuale Cunizza da Romano? È un problema che non si risolve limitandosi all’analisi del canto V, né isolando l’episodio di Paolo e Francesca all’interno del canto medesimo. L’esigenza di una interpretazione organica della prima cantica è fortemente sostenuta anche dai diversi studiosi radunati in Voci sull’Inferno di Dante. Curata da Zygmunt G. Baranski e dalla stessa Terzoli, la pubblicazione fa seguito all’omonimo progetto realizzato a Basilea tra il 2019 e il 2021, in gran parte trasmesso via Zoom a causa della pandemia. Oltre all’autorevolezza dei singoli contributi, va registrata l’utilità dei saggi introduttivi, incentrati sull’importanza dell’elemento “popolare” nella Commedia (Lino Pertile), sulla cronologia compositiva (Paolo Pellegrini) e sulla tradizione manoscritta dell’Inferno (Michelangelo Zaccarello). Il cofanetto arriva in libreria contemporaneamente all’atteso commento dei primi diciassette canti dell’Inferno allestito da Enrico Malato per la Necod, la “Nuova edizione commentata delle opere di Dante” in corso di pubblicazione presso Salerno (pagine XL+762, euro 55,00). Parliamo di un’impresa che, avviata ufficialmente nel 2010, in poco più di un decennio ha reso disponibile quasi tutto il corpus dantesco (manca ancora il Convivio) e che adesso, con la progressiva uscita del commento alla Divina Commedia, arriva veramente a compimento. L’intera operazione porta l’impronta di Malato, professore emerito di Letteratura italiana alla Federico II di Napoli e convinto sostenitore della necessità di un’interpretazione ampia, documentata e innovativa. Il volume attuale contiene solo la metà dell’Inferno, è vero, ma offre già un nutrito apparato di risorse utili alla conoscenza del poema, tra cui un’introduzione generale alla Commedia. Fra i canti di cui viene offerto il commento – stratificato su dif- ferenti livelli di approfondimento – sono presenti alcuni dei capisaldi sui quali poggia la proposta interpretativa di Malato. Facendo perno su Inferno X, nella fattispecie, il critico invita a inserire il viaggio di Dante (intrapreso, secondo Malato, nella notte tra il 7 e l’8 aprile 1300, data corrispondente al Venerdì Santo di quell’anno) nel contesto del dissidio ormai irreversibile con il già ricordato Cavalcanti. Sostenitore della natura “accidentale” dell’amore quest’ultimo, mentre Dante è guidato dal desiderio di perseguire l’unione spirituale con Beatrice, che nel passaggio verso l’Empireo si farà agente di una teologia trasfigurata in mistica. Anche il canto V dell’Inferno partecipa di questa concezione. Secondo Malato, infatti, quello dedicato a Francesca non è cammeo elogiativo, ma al contrario un exemplum, ossia uno dei racconti esemplari, di esplicito ammonimento morale, così frequenti nella predicazione del Medioevo. Su un impianto per molti versi analogo, ma sviluppato con larga autonomia argomentativa, poggia il densissimo Amore e colpa di Donato Pirovano (Donzelli, pagine 164, euro 18,00), nel quale l’incontro del poeta con Francesca viene collocato al termine di una peregrinazione che dalla Vita nuova si snoda attraverso le Rime, in particolare le cosiddette “petrose” e quelle in cui è evocata la seducente “montanina”. In entrambi i casi, osserva Pirovano, è la tentazione dell’amore carnale a farsi avanti, tanto da far sospettare che proprio questa sia la “selva oscura” nella quale Dante si dibatte prima che Beatrice gli venga in soccorso. Ordinario di Filologia e critica dantesca all’Università di Torino, Pirovano rivela uno sguardo acutissimo nell’individuare corrispondenze e riprese che, come sempre nella Commedia, hanno carattere intenzionale e rivelatore. Decisiva, fra tutte, la successione di rime “spense / offense / pense” con la quale Francesca allude alla propria uccisione e che tornerà, minimamente variata, sulle labbra di Beatrice nel canto XXXI del Purgatorio, in un brano nel quale Dante è chiamato a discolparsi per la propria incostanza. Ancora più in là si spinge Terzoli, registrando un analogo riecheggiamento tra il V dell’Inferno e l’VIII del Paradiso. Protagonista questa volta è Didone, emblema della schiera dei lussuriosi nella quale Francesca vortica misteriosamente stretta a Paolo. Povera regina, anche Didone, povera amante presa all’amo dall’amato.
Il linguista Francesco Bruni: «Necod, lezione di metodo»
Tre centenari in fila: Leonardo nel 2019, Raffaello nel 2020, Dante nel 2021. «Un trittico formidabile», commenta il linguista Francesco Bruni. «Nelle intenzioni – prosegue – avrebbe dovuto rilanciare l’immagine dell’Italia a livello internazionale. Certo, la pandemia non ha aiutato, però…». Però c’è il “cantiere Dante”, tornato in grande fermento già prima che scoccasse la ricorrenza del settimo centenario della morte del poeta. «Le celebrazioni del 1965, relative alla nascita di Dante, furono caratterizzate dall’edizione critica della Divina Commedia approntata da Giorgio Petrocchi – ricorda Bruni –. Oggi le iniziative sono molteplici. Da un lato, abbiamo il gruppo di lavoro coordinato da Paolo Trovato presso l’Università di Ferrara e impegnato nella valorizzazione dei manoscritti del poema riconducibili all’Italia settentrionale, dove Dante trascorse gli ultimi anni della sua esistenza. D’altro canto, è ormai imminente la pubblicazione della nuova edizione critica curata da Giorgio Inglese. Ma a mio avviso, almeno nell’immediato, le acquisizioni più rilevanti provengono dal versante dei commenti». Bruni si riferisce in particolare alla Necod, la “Nuova edizione commentata delle opere di Dante” diretta da Enrico Malato per Salerno. «Ho qui sotto mano il primo volume dell’Inferno – dice – e, per quanto si tratti ancora di una “edizione esemplare”, come viene definita, mi sembra ricchissima di spunti, che richiederanno tempo per essere apprezzati nella loro portata. Una volta metabolizzati, potrebbero contribuire notevolmente a migliorare l’insegnamento scolastico della Commedia. La Necod, del resto, ha una genesi singolare. Trae origine dal progetto dell’Edizione nazionale dei Commenti danteschi che, avviata una quarantina di anni fa, si è rivelata straordinariamente fertile di prospettive. È in questo contesto che, attorno al Centro Pio Rajna di Roma, si è radunata la comunità di studiosi alla quale si devono i commenti alle varie opere del corpus dantesco già apparse nella Necod. Ora, con questo primo passo nell’interpretazione della Commedia, il lettore si trova davanti a qualcosa di davvero imponente». A colpire, insiste Bruni, è un elemento che potrebbe apparire marginale. «La perifrasi dei singoli canti proposta da Malato – dice – si presenta, in tutta umiltà, come strumento di servizio, ma è l’esito di un percorso niente affatto banale. Perché riesce nell’intento di adottare un linguaggio che, comprensibile nella sua modernità, non tradisca la parola di Dante. E poi perché porta alla luce una serie di rispondenze interne che passerebbero altrimenti inosservate. Questo avviene in modo sistematico, fino a costituirsi come vero e proprio metodo di lettura». Per spiegarsi meglio, Bruni ricorre a una battuta molto in voga tra i filologi: «Nel 1920, nell’introduzione al suo Orazio lirico, Giorgio Pasquali sosteneva che in quel libro si sarebbero potuti trovare anche gli ombrelli smarriti. Era una maniera per alludere a una vastità di documentazione che contraddistingue anche il commento di Malato alla Commedia. Solo che qui, potremmo aggiungere, gli ombrelli vengono passati scrupolosamente in rassegna, così da rendere visibili i rapporti di uno con l’altro». Fuor di metafora, è la trama più intima del poema che viene riportata in superficie. «C’è un centro di gravità ben riconoscibile, che per Malato corrisponde alla contrapposizione tra la concezione passionale dell’amore sostenuta da Cavalcanti (che nella Commedia è il grande assente) e quella spirituale e teologica di cui si fa promotore Dante – sintetizza Bruni –. Muovendo da questa ipotesi, si sviluppa una rete di riecheggiamenti tra un canto e l’altro, e tra una cantica e l’altra, che va radicalmente al di là della consuetudine della lectura Dantis. Non è più l’episodio in sé ad attirare l’attenzione, ma la sua rispondenza al disegno unitario dell’opera. È un metodo, lo ripeto, che ciascuno può fare proprio, con guadagni sempre sorprendenti».
Alessandro Zaccuri