La nobile famiglia valenciana dei Borja, italianizzata in Borgia, ha fornito alla Chiesa due papi tra Quattro e Cinquecento: Alfonso, divenuto Callisto III (1455-1458), e Rodrigo, poi Alessandro VI (1492-1503). Lo Spirito soffia dove vuole: e i cattolici, i quali credono nel Suo intervento nei conclavi, non si lasceranno disorientare più di tanto dinanzi al fatto che nel fatidico 1492 – annus mirabilis et terriobilis: la caduta di Granada, la morte del magnifico Lorenzo, la scoperta del Nuovo Mondo – i cardinali orientassero il loro voto sul nipote preferito di papa Callisto, quel Rodrigo addottoratosi brillantemente in diritto canonico nell’Università di Bologna e dal 1456 cardinale. Uomo duro, astuto, amante dei piaceri e privo di scrupoli, Rodrigo era un politico e un diplomatico abilissimo. Padre di dieci figli, famoso per i suoi legami amorosi con Vannozza Cattanei e poi con Giulia Farnese, dopo la sua ascesa al soglio pontificio favorì – appoggiandosi al regno d’Aragona e al ducato di Milano prima, al re di Francia poi – le mire di Cesare, quello spregiudicato di suo figlio che, facendo leva sul suo ruolo di «gonfaloniere della Chiesa» (una specie di governatore generale dello Stato pontificio) mirava in realtà molto più in alto. Quella dei Borgia è una storia di potere, violenza eferocia, ma anche di sottile politica. Certo, la morte di papa Alessandro e l’ascesa al soglio pontificio del suo più acerrimo nemico, Giulio II, segnò la fine della meteora di Cesare – che aveva affascinato Niccolò Machiavelli – e ne affrettò la rovina fino alla morte in battaglia, in Navarra, nel 1507. La sua (troppo) chiacchierata sorella Lucrezia, duchessa di Ferrara, gli sopravvisse fino al 1519 votata alle pratiche religiose. Suo figlio Ippolito d’Este sarebbe stato uno dei più fastosi mecenati dell’Italia rinascimentale, mentre il grandissimo san Francesco de Borja sarebbe stato il terzo generale della Compagnia di Gesù. Alla saga dei Borgia un pur valente studioso tedesco dell’Ottocento, Ferdinand Gregorovius, tentò di applicare una maschera scandalistica scrivendo un capolavoro di pamphlet storico, Lucrezia B orgia ( Newton & Compton), che costituisce uno dei best sellers della «leggenda nera» sul papato corrotto. Ci riuscì. Da allora, il cognome Borgia (facile la rima con «orgia») è uno dei più esecrati da tutti gli studiosi da strapazzo e gli storici della domenica in vena di affermazioni anticlericali. E non scherza nemmeno Juan Antonio Cebriàn, giornalista e divulgatore di successo, il quale ha da pochi mesi pubblicato per Ediciones Temas de Hoy un agile libro, Los Borgia. Historia de una ambiciòn , che sembra ignorare il testo del Gregorovius (ma ha tenuto conto di uno di Roberto Gervaso e di uno di Mario Puzo) e che a modo suo è quasi geniale: risulta difficile riunire tutte le banalità dello sciocchezzaio anticattolico travestito da denunzia moralistica. Le bugie avranno le gambe corte, ma quando si tratta di dir male del papa (sia pure dopo mezzo millennio) fanno alquanta strada. Il libretto del Cebriàn era già un «perfetto» copione cinematografico: anzi, forse è stato scritto fin da principio con questo fine. E, puntuale, è arrivato il film, che per la verità si basa quasi solo sul libro di Mario Puzo (per il quale i Borgia furono la prima «grande famiglia» del crimine, quasi i trisnonni del Padrino). Prodotto dalla tv pubblica spagnola «Antenna3», diretto da Antonio Hernández, con costumi sontuosi, spesso «a risparmio » e non sempre filologicamente inappuntabili. La pellicola sta imperversando sugli schermi d’Europa: pubblicizzata con la formula «Ambición, Pasión, Poder» e basata sul solito trio sangue- morbo-sesso, mobilita divi della moda e del piccolo schermo per una versione iberica del Kulturkampf contro la Chiesa. Un polpettone pseudostorico su amori, incesti, crudeltà e delitti all’ombra di papa Borgia. Nulla trapela dal film di Hernández su quisquilie come il fatto che ormai, su Alessandro VI, il giudizio degli storici è alquanto mutato dai beati tempi del Gregorovius. Ne sono testimoni i molti convegni e i bei volumi pubblicati a cura dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, la più autorevole istituzione pubblica italiana sugli studi medievistici, e il cui direttore Massimo Miglio – un celebre studioso, insospettabile di simpatie «clericali» – è un serio estimatore del grande pontefice. Che fu senza dubbio uomo del suo tempo, con tutto il peso morale che ciò può comportare: e peccatore fin che volete. Ma che fu anche un papa straordinario: avviò la riforma degli Ordini religiosi, mostrando di aver compreso bene i mali della Chiesa del tempo (quelli che avrebbero condotto alla rivolta di Lutero); sistemò la contesa ispano-portoghese dopo la scoperta del Nuovo Mondo, imponendosi per una versione equilibrata del problema. Fu uno statista accorto che, riordinando l’amministrazione, le finanze e l’istituzione dello Stato della Chiesa e ponendo fine a molti abusi, fornì un contributo decisivo all’aprirsi dell’età moderna; s’impone alla gratitudine di chiunque apprezzi l’arte come generoso mecenate; dette, da competente canonista, un energico impulso agli studi di diritto canonico, necessario per il riordino della gerarchia; fu paziente perfino dinanzi agli attacchi di Gerolamo Savonarola, che infatti fu vittima degli odi delle fazioni fiorentine più e prima che della sua volontà. Queste cose sono tutte «dimenticate»nel film: prevale il taglio morboso in questo mattone di quasi due ore e mezzo che un critico spagnolo ha qualificato come «insufriblemente soporíferas» accompagnato da una colonna sonora ampollosa. Non sappiamo quando il film arriverà in Italia, col solito codazzo di polemiche riciclate, il déja vu di tempestosi talkshow a colpi di bignamesche reminiscenze. Ma per piacere, che non si ripetano tormentoni alla Dan Brown.