Nel numero di gennaio della rivista
Le scienze, Piergiorgio Odifreddi ha scritto un articolo su Blaise Pascal la cui lettura risulta davvero imbarazzante. Non so se la citazione di Einstein, posta come premessa all’articolo per introdurre il tema degli scritti di Desargues e Descartes, secondo cui «la scienza non è una repubblica delle banane», sia frutto di un brutto tiro giocato dall’inconscio, oppure se dobbiamo prenderla come avvio autoironico di quanto segue... Ho scritto «imbarazzante» perché raramente mi è capitato di imbattermi, nel merito, in una tale sequenza di inesattezze a proposito di uno dei maggiori scienziati moderni, nonché il massimo scrittore in prosa del Seicento francese, ma anche – mi si perdoni la franchezza – in una visione tanto miope e puerile dell’animo umano.Iniziamo dalle inesattezze. Odifreddi afferma che a 31 anni Pascal, sotto l’influsso dei giansenisti, «era completamente perso per la scienza». Dunque facciamo un po’ di conti, essendo nato nel 1623, Pascal aveva 31 anni nel 1654. Citando i soli studi scientifici, nel 1654 Pascal termina i
Traités de l’équilibre des liqueurs et de la pesanteur de la masse de l’air, lavora al
Traité des coniques, di cui ci rimane un frammento, pubblica il
Traité du triangle arithmétique; nel 1655 scrive
De l’Esprit géométrique e Introdution à la Géométrie; nel 1658 indice un concorso internazionale per risolvere il problema della «roulette» di cui rivelerà la soluzione nelle
Lettres de Dettonville, capolavoro degli studi matematici che suggerirà a Leibniz il calcolo differenziale. Per non parlare del carteggio con scienziati come Sluse, Fermat, Huygens, eccetera, o del complesso piano da lui curato nei dettagli per il primo sistema di trasporti pubblici in Europa tra 1661 e 1662, anno della morte. Pascal completamente perso per la scienza dal 1654?Ma Odifreddi, oltre al nefasto influsso giansenista (e dimenticando forse che tra i giansenisti c’erano studiosi come il grande Arnauld) afferma perentoriamente che la causa del ritiro (presunto) di Pascal dalle scienze sia stata la follia: «Il 23 novembre 1654 Pascal impazzì». Ohibò. Dopo essermi strofinato gli occhi, ho proseguito la lettura dell’articolo che esporrebbe le prove di questa, inedita, pazzia di Pascal: «Lo testimonia il Memoriale che scrisse quella sera, pieno di frasi senza senso». Ora, che quello che tutti ritengono un documento di alta spiritualità possa essere interpretato come un segno di follia, è pensiero bizzarro se pure lecito. Ma neppure a Odifreddi la motivazione dev’essere sembrata troppo fondata, se ha sentito il bisogno di precisare che «la religione e il misticismo erano comunque solo effetti, o concause, della sua trasformazione». Dunque, la religione e il misticismo pascaliano non erano sufficienti, e a questo punto Odifreddi introduce l’argomento princeps in sostegno a quanto afferma: «Pascal era infatti reduce da un grave incidente in carrozza sul ponte di Neuilly, in cui aveva letteralmente battuto la testa. In seguito soffrì per tutta la vita di forti emicranie. E quando morì nel 1662, a soli 39 anni, l’autopsia rivelò evidenti lesioni cerebral». Un lettore sprovveduto che legge un passo come questo è certamente portato a credergli (che dovizia di informazioni!); peccato che in queste poche righe l’unico dato certo riguardi l’anno della morte di Pascal. L’incidente sul ponte di Neuilly è un aneddoto, riportato da un anonimo forse alla fine del Seicento, che dice di averlo saputo da.... che a sua volta dice di averlo saputo da.... che a sua volta dice di averlo saputo dalla nipote di Pascal!Ma Odifreddi, troppo preso dalla provvidenziale tempestività di questo storia, vi aggiunge anche del suo: nell’aneddoto si dice che due dei cavalli, rotti i finimenti, cascarono nella Senna mentre la carrozza no, dal che il professore ha dedotto che Pascal avesse «letteralmente» battuto la testa (rimane un dubbio: cosa vuol dire battere la testa «letteralmente»?), e poiché le deduzioni sono come le ciliegie e una tira l’altra, vi aggiunge anche la ovvia (per lui) constatazione che «in seguito» il pover’uomo avesse sofferto di emicranie. Peccato che Pascal ne patisse fin dalla prima giovinezza, ma dall’aldilà sarà certo grato di avergli abbreviato di una decina d’anni – per esigenze di copione – la sofferenza.Dopo le ciliegie, la ciliegina: l’autopsia avrebbe rivelato, sempre secondo Odifreddi, «evidenti» lesioni cerebrali... Ora, a parte il fatto che tutta la sequenza è puramente immaginaria, dove ha letto il professor Odifreddi che nel referto autoptico si parlava di evidenti fratture cerebrali? Nel reperto (attendibile o meno rispetto alla medicina del tempo), al contrario, si parla di una mancata chiusura infantile di certe suture craniche che gli avrebbero causato per tutta la vita devastanti dolori alla testa. La lettura del referto e di altre diagnosi dei medici lascia spazio solo per due ipotesi, formulate nel Novecento: il cancro o la tubercolosi. Fermo restando poi che le (supposte) fratture cerebrali causate da un (supposto) incidente stradale nel 1654, non gli avrebbero impedito di scrivere negli anni successivi, tra l’altro, le
Provinciales e le
Pensées, bagatelle che anche un pazzo o uno con evidenti fratture cerebrali naturalmente potrebbe scrivere!Però il professor Odifreddi, con invidiabile disinvoltura che spero riservi solo alle miserabili vicende di un Pascal qualsiasi, mirava ad altro, una specie di perorazione conclusiva, tanto polemica quanto sprezzante, che riproduco per la gioia (e lo spasso) di tutti i lettori di Pascal: «Oggi lo si ricorda quasi soltanto per i confusi
Pensieri nei quali sprecò il suo talento, ma in gioventù aveva fatto vedere di cosa sarebbe stato capace, se fosse stato risparmiato dalla conversione». Ma allora è stato il colpo «letterale» alla testa o la conversione a sviarlo, facendone prima un pazzo e poi un debole di mente, o tutti e due? E poi: è proprio sicuro che una conversione, con o senza colpo in testa, possa rovinare per sempre un talento? Se questo è un assioma, dov’è la sua evidenza? Ma se dal 1654 Pascal era già impazzito e invalido (parole di Odifreddi), com’è possibile che in seguito sprecasse il suo talento in quelle opere che, a dire il vero, solo il nostro esperto ritiene insignificanti? Quale talento gli era rimasto? E poi quanti di noi vorrebbero fare a meno della conversione di un san Paolo o di un sant’Agostino? Divennero realmente acefali a causa della conversione? Credo che sia inutile commentare o infierire oltre su un simile procedimento argomentativo lacunoso e non poco illogico, ma a proposito di «confusione»: non è che l’inconscio, ancora una volta, abbia preso la mano a Odifreddi?