Quasi si ritrae facendo un passo indietro
Goffredo Fofi quando è chiamato a salutare il pubblico del Salone del Libro venuto per festeggiarlo come vincitore del Premio «Giuseppe Bonura per la critica militante», che Roberto Righetto gli consegna a nome dei promotori,
Avvenire e Università Cattolica. Esordisce appunto con una punta d’imbarazzo Fofi e confessa: «In passato mi hanno proposto per un premio due o tre volte e ho detto di no. Questa volta ho accettato, un po’ forse per vanità: lo scorso anno l’ha vinto Tzvetan Todorov, uno degli intellettuali europei che stimo di più, per questo non potevo rifiutare». E con una punta d’orgoglio aggiunge: «Sono cresciuto nei campi, non nelle sale delle università, sono un autodidatta col titolo di maestro e – se anche ho cinquant’anni di critica sulla schiena – credo di valere di più come militante». Militante in che cosa, se non nella critica? Prendendo a prestito Aldo Capitini, Fofi si definisce «un militante dei valori: il giusto, il bene e il bello. I primi due forse si riescono ancora a trovare da qualche parte, ma riguardo al bello mi pare molto difficile, si vedono cose brutte in giro». Introducendo la tavola rotonda
Ernesto Ferrero aveva ricordato come il premio celebri la memoria di un critico, Giuseppe Bonura, che scriveva stroncature memorabili, ma con grande onestà intellettuale. E Fofi dice: «Stroncare, parola terribile, che quasi mi fa orrore. Ma in certi casi ci vuole, per porre un limite a ciò che fa danno. Nella mia vita ho avuto come riferimento l’Ecclesiaste: tutto è vanità; ma anche Brecht: mai dire mai. Può anche darsi che i nostri sogni più difficili siano ancora realizzabili. Non dobbiamo perdere la speranza». Aveva cominciato così
Roberto Righetto, caporedattore delle pagine culturali di
Avvenire, ricordando il «Principio speranza» di Bloch e la riflessione sul male di Camus. E la letteratura? La letteratura, il suo potere, o contropotere, ce l’ha ancora, o – come sostiene Fofi – prevale una cultura di destra, mentre la letteratura di sinistra dovrebbe essere quella che si occupa «della solidarietà, della giustizia, del rispetto della natura e dell’uomo»? L’italianista
Giuseppe Langella, che sta seguendo l’archivio dei materiali di Bonura affidati alla Cattolica, ha raccontato una sua memoria di bambino, quando nel 1960 trasferendosi la sua famiglia da un piccolo paese marchigiano nella «grande» Senigallia, ebbe come un trauma di ambientamento. Ma, ecco, le sue paure si dileguarono quando il maestro, tirando fuori dalla borsa di pelle
Cuore, lesse la pagina dove si parla dell’arrivo a scuola del bambino calabrese. «Quando il maestro finì di leggere quella pagina accadde anche a me ciò che De Amicis narra del ragazzino calabrese: ebbi dai miei compagni dei piccoli doni come segno di benvenuto, un ricordo che oggi mi fa dire: ecco il potere della letteratura». Il potere di unire, e non di dividere.
Ermanno Paccagnini, che moderava il dibattito, ha premesso che parlare di «potere della letteratura» è cosa discutibile, anzi «si tratta di un ossimoro, la letteratura è alterità rispetto al potere. Preferisco che si parli di forza della letteratura». E lo storico della letteratura
Carlo Ossola ha cercato di declinare le qualità che la rendono «forte»: la letteratura è profetica, «quasi messianica», è rinascita, è rovesciamento («come quando cadono le statue»), è convocazione: «La più importante secondo me». La mappa dei riferimenti messi in campo da Ossola va dal Bloch già citato, a Celan, da Calvino a Cortázar. La letteratura è profetica nel suo tentativo di «riparare l’imperfezione del presente»; nell’immane sforzo umano di conservare «la letteratura innesta la rinascita, il senso dell’avvenire». E il rovesciamento: Ossola cita Maria, che parla poco nei Vangeli ma ha la capacità di dire «una parola che, pronunciata oggi, è più forte dei tanti proclami politici: benedice suo Figlio venuto a rovesciare i potenti dai loro troni». La letteratura come convocazione: l’ultimo pensiero di Ossola è ancora per Celan e alla sua poesia come «parola liberata, innalzata a tenda. La letteratura che amplia il manto della misericordia di cui abbiamo bisogno».
Elisabetta Rasy ha ricordato che se «il potere è quello politico, che vincola a un’obbedienza, quella della letteratura è piuttosto potenza che induce alla disobbedienza. Pero, attenzione: alcuni scrittori, nel Novecento, hanno voluto credere a un incantesimo: la presa del potere per fini giusti. Tralasciando magari la questione della giustizia e della dignità umana. In realtà la letteratura deve rifiutare gli aggettivi, anche se nel mondo occidentale il vero problema non è quello della censura politica: da noi la letteratura non vale per ciò che dice, ma per i soldi che fa guadagnare». A chiudere la tavola rotonda, che ha lanciato parecchi sassi nello stagno dell’industria culturale, è il critico
Marco Belpoliti, che nota come il mondo in cui viviamo non sia tanto quello di Orwell, ma quello di Huxley dove «siamo tutti consumatori e costruttori di un potere che ormai è parte di noi, dentro di noi». È un potere reale ma difficile da descrivere, perché la nostra società è fatta da un gioco di sguardi che ci ingloba, rendendo difficile a tutti separarsi dal potere. La letteratura – ha concluso Belpoliti – è per gli scrittori un «dono avvelenato, come fu per Primo Levi. Ma dono necessario, tanto più oggi per il nostro Paese, che ha bisogno di molta fede, fede in tutto, perché sembra averla persa».