Sant'Anselmo ritratto in una vetrata inglese - WikiCommons
Uno dei più recenti argomenti gettati nell’agone postumanista scandisce: a) l’intelligenza artificiale (IA) è, per definizione, la forma di intelligenza suprema, tale da potersi dire, in prospettiva, “perfetta”; b) una forma di intelligenza non sarebbe perfetta se non fosse in grado di darsi l’esistenza; c) dunque, l’IA si presentificherà, presto o tardi, necessariamente. A ravvivare l’argomento è stato Ted Chiang, che i cinefili conoscono come l’ispiratore letterario di Arrival, raro film di fantascienza dove gli alieni, anziché devastatori della Terra, sono esseri d’intelligenza superiore, che hanno la grazia di comprendere, in stile Laplace, presente e futuro, e cercano la collaborazione degli umani per un domani di pace e armonia. Quanto alla “dimostrazione” dell’esistenza (futura) dell’IA, approfondire la somiglianza strutturale con la prova ontologica dell’esistenza di Dio di sant’Anselmo d’Aosta è pressoché pleonastico. Un parente stretto di tale argomento, nel mondo del postumanesimo & co., è il cosiddetto Basilisco di Roko. Il basilisco è il leggendario ’“re dei serpenti” che uccideva con il solo sguardo; Roko è il nome, o il nickname, dell’ideatore dell’argomento, lanciato per la prima volta nel 2010 sul sito cult della “razionalità tecnologica” LessWrong. Qui, l’IA è una figura messianica, di imminente avvento, che verrà a giudicare i vivi e i morti, con un metro di giudizio assai originale: coloro che si sono impegnati attivamente nella costruzione dell’IA stessa saranno remunerati con ogni abbondanza; chi non lo ha fatto o, peggio, ha avversato tale avvento sarà punito (anche i defunti). Alla già palese scopiazzatura dello schema dell’escatologia cristiana, il Basilisco aggiunge una domanda finale: conviene dedicare la nostra esistenza all’IA e guadagnare poi immense ricompense oppure trascurarla in vita e andare incontro a una punizione extra-temporale? Ecco servita la nuova scommessa del techno-Pascal. Un terzo ed ultimo elemento da inserire nella considerazione è il concetto di “Universo computazionale”, ideato dal matematico di genio Stephen Wolfram, secondo cui esiste un cosmo metafisico ove risiedono gli algoritmi eterni di tutte le realtà, le presenti e quelle a venire. Ascendere alla contemplazione di tale cosmo ha qualcosa di beatifico e a ’mettere le ali’ verso esso non è il corpo avvenente di qualche giovinetto, ma, ovviamente, il fascino ipnotico - non per tutti - di eteree stringhe di 0 e 1 o di automi cellulari che scorrono sullo schermo del computer. Ogni riferimento all’iperuranio platonico, o alle idee della mente divina secondo l’aggiornamento agostiniano, è difficilmente casuale.
La scultura “Tužni Rudar” (2018) di Tarwuk, al quale la Collezione Maramotti di Reggio Emilia dedica la prima personale in Italia “Ante mare et terras” (fino al 20 febbraio) - © Tarwuk
Dinanzi ad una simile riproposizione di classici motivi filosofici e teologici in coloritura iper-tecnologica, cosa è maggiormente opportuno pensare? Quale ne è il senso, quale l’indicazione da trarre? È comprensibile la ragione di chi, come Leonie Seng, nel suo contributo a IA. Riflessioni in filosofia, teologia e scienze sociali (2020), con tono canzonatorio, parla di «vino vecchio in otri nuovi», evidenziando che solo di “travaso filosofico” si tratta, ovvero saccheggio, scimmiottatura, predazione di contenuti altrimenti inarrivabili per certuni teorici. Sono da ascoltare pure coloro che, un po’ pessimisticamente, insegnano che la sostituzione tra il Dio cristiano e il Demiurgo tecnologico sia già avvenuta, specie nella fede delle giovani generazioni, e dunque è conseguente anche il passaggio di consegna degli argomenti tipici. Una qualche sorpresa, in certa misura piacevole, suscita l’ulteriore interpretazione secondo cui Internet-e-annessi non sono solo dono della grazia divina, ma addirittura parte della storia di Dio e quindi parlare di IA è, per sineddoche, parlare di Dio. Si tratta di una voce che va riecheggiando: John Dyer, decano del Seminario teologico di Dallas, al Global Meetup di FaithTech 2020, ha ribadito che la tecnologia – immenso segno di un Dio che continua a donarsi – «è, invero, parte della storia di Dio» e il teologo William H. U. Anderson, curatore della silloge Technology and theology (2020) ribadisce: «la teologia è in una posizione interdisciplinare unica per affrontare molte delle questioni che la tecnologia solleva». Si lascia intravedere, in ogni caso, una stretta intimità tra tecnologia e teologia, anche se una profferta tanto variegata di risposte, anziché chiarificare, finisce per ingarbugliare il tentativo di comprensione. E così, tra visioni sì contrastate e un po’ frastornati da queste inaspettate simmetrie, torniamo – e ci fermiamo – alla domanda di prima: dinanzi ad una simile riproposizione di classici motivi filosofici e teologici in coloritura iper-tecnologica, cosa è maggiormente opportuno pensare?