Da un angolo della periferia di Milano si parte per uno straordinario viaggio attraverso il secolo breve alla ricerca del bene che non muore neppure nei momenti più oscuri. Gabriele Nissim, storico e documentarista è stato il primo viaggiatore. Ha iniziato tanti anni fa, studiando il dissenso oltre l’ex cortina di ferro e rimanendo impressionato dalla negazione della Shoah da parte del comunismo. Senza contare i tentativi di diversa matrice di ridimensionare l’Olocausto. Ultimo, quello del presidente iraniano Ahmadinejad. Nel 1999, alla fine di un secolo contrassegnato da genocidi e di un decennio nel quale i massacri di massa erano ricomparsi in Ruanda e nei Balcani, ha pensato che alla base della collina del Montestella, costruita con le macerie della seconda guerra mondiale, ci stava bene una foresta della memoria che parlasse dei buoni di tutto il secolo. Così ha dato vita al comitato per la foresta dei Giusti del mondo, in inglese Garden of the righteous worldwide: Gariwo. E ha piantato alberi a Milano prendendo come riferimento lo Yad Vashem di Gerusalemme, il primo giardino dei giusti, e la sua commissione presieduta per 30 anni dal leggendario giudice Moshe Bejski, il cacciatore di buoni che scovò 20 mila eroi sconosciuti che aiutarono gli ebrei a salvarsi dai nazisti. Così sulla collina milanese, dal 2003 parte il viale dei Giusti, alberato con i pruni che ricordano uomini e donne i quali, dice un passo della Bibbia «hanno salvato una vita e perciò hanno salvato il mondo intero».
Professor Nissim, chi sono per lei i Giusti? «Penso che la definizione oggi vada estesa da coloro che hanno aiutato le vittime della Shoah a tutti quelli che hanno aiutato le vittime dei totalitarismi, che si sono quindi ribellati al male assumendosi una responsabilità individuale. Sono percorsi complessi. Hannah Arendt ricorda che nel corso del ’900 si sono susseguite ideologie totalitarie che stravolgevano la realtà. Mentire, rubare, uccidere diventava legittimo per il bene dello Stato, del partito. della razza. Allora il Giusto è colui che arriva a recuperare la coscienza individuale infrangendo il muro».
Oggi chi sono? «È un Giusto il giornalista turco Hrant Dink, ucciso qualche anno fa nonostante parlasse del massacro degli armeni avvenuto 90 anni fa. O il console italiano in Ruanda Pierantonio Costa, che nel 1994 ha salvato centinaia di persone trasportandole sulla sua auto e corrompendo i miliziani. E Svetlana Broz che ha raccolto storie di uomini e donne serbi, bosniaci e croati che si sono opposti alla pulizia etnica nei Balcani. In questo senso parliamo di 'memoria responsabile', perché, se si resta confinati alla seconda guerra mondiale, si rischia di cristallizzare il concetto universale di Giusto che è sempre attuale. Sono orgoglioso di avere nell’associazione la Comunità ebraica, che lo ha capito, insieme a quella armena e al Comune di Milano».
Ma i Giusti hanno collocazione politica? «Assolutamente no. Penso alle storie di Giorgio Perlasca o Guelfo Zamboni, il console di Salonicco che celebriamo domani a Milano al teatro Derby con 800 studenti delle quarte e quinte classi di 15 scuole superiori. Entrambi fascisti, hanno aiutato molti ebrei a salvarsi dalla deportazione mettendo a rischio la propria vita. Per molti anni abbiamo sofferto per una visione politicamente corretta, per cui solo gli antifascisti erano Giusti. Invece la loro memoria è trasversale».
Ovvero?«L’anno scorso abbiamo piantato al Montestella un albero per la giornalista russa Anna Politkovskaja e quest’anno ricordiamo nel convegno internazionale di domani a Milano Marek Edelman, morto quattro mesi fa, che fu vicecomandante della rivolta ebraica nel ghetto di Varsavia, ma che non volle mai migrare in Israele perché doveva custodire le tombe dei suoi. E celebriamo lo scrittore sovietico Vassilij Grossman che in epoca staliniana scrisse il Libro nero sul genocidio degli ebrei nei territori sovietici occupati dai nazisti, censurato fino al 1989, e poi Vita e destino, sequestrato dal Kgb dove per la prima volta parla del bene insensato. Raccontava storie minori di speranza, come la dottoressa che va a morire in un lager nazista con un suo piccolo paziente perché doveva proteggerlo. Ma era considerato eversivo dal comunismo. La similitudine con il nazismo e il concetto di campo come luogo di eliminazione dei dissidenti creavano imbarazzo».
Dove si orienterà in futuro la ricerca? «Nell’est europeo. Penso a figure del dissenso polacco come Jacek Kuron, il giornalista Adam Michnik o a Jan Karsky, cattolico e membro della resistenza che nel 1943 denunciò la tragedia della Shoah con chiunque potesse incontrare: politici, giornalisti, diplomatici. Dopo la fine del conflitto si battè contro l’antisemitismo ed era molto apprezzato da Giovanni Paolo II».
Cosa pensano le giovani generazioni dell’Olocausto e dei genocidi? «Non sono certo indifferenti. Il coinvolgimento delle scuole è uno dei nostri obiettivi e riscontriamo sempre grande interesse da parte di allievi e professori. A patto di non mettere i ragazzi di fronte al male assoluto, meglio raccontare storie e percorsi individuali che fanno capire come in ogni circostanza l’uomo ha la possibilità di scegliere il bene. Si appassionano se capiscono che il modello è replicabile e anche oggi si può scegliere in silenzio di diventare eroi». Il Giardino dei giusti inaugurato di recente a Padova. In basso lo storico Gabriele Nissim.