Quando, nel 1930, Amadeo Bordiga fu espulso dal Partito comunista d’Italia, gli stessi fascisti al potere – che già avevano inflitto a Bordiga un arresto e tre anni di confino – sulle prime non ci credettero: era il fondatore del partito, suo primo segretario, già direttore de "Il comunista", membro dell’esecutivo dell’Internazionale. Ma espulso, perché "eretico". I partiti comunisti, e quello italiano in particolare, sono stati spesso accostati in metafora a una Chiesa, con le loro liturgie, le loro gerarchie e soprattutto i loro dogmi. Bordiga ne aveva infranti parecchi, nei convulsi anni della nascita del Partito comunista italiano – che coincidevano con la presa del potere da parte dei fascisti. Uno su tutti: aveva pubblicamente messo in discussione l’infallibilità del Capo. Durante il VII esecutivo dell’Internazionale, nel febbraio del 1926, aveva apostrofato Stalin in persona, accusandolo di anteporre l’interesse nazionale russo a quello del movimento comunista internazionale. Stalin lo fulminò invocando il "perdono divino" su Bordiga, che tuttavia evidentemente quello umano non riuscì a spuntarlo: espulso dal partito all’immediato scadere del suo confino, nel 1930 quando aveva addirittura osato difendere Trotsky – pure senza condividere le sue idee –, visse poi nel silenzio, in una sorta di esilio interno, fino alla morte, che lo colse nel 1970. E, paradossalmente, quello di Bordiga è il caso più noto. Il ponderoso volume
L’età del comunismo sovietico. Europa 1900-1945, ne allinea numerosi altri; quelli italiani, tutti accomunati dalla scelta antistalinista. Un peccato inespiabile, mezzo crimine ideologico mezza lesa maestà, che ha condannato i suoi sostenitori alla peggiore pena possibile per un pensatore: il silenzio intorno alle proprie opere. Eccezion fatta per gli specialisti della storia del comunismo, per il pubblico – anche quello colto – il pensiero marxista italiano si esaurisce lungo la linea Gramsci-Togliatti-Berlinguer, esplicitamente e consapevolmente scelta dal partito anche a costo di forzature, omissioni e giochi di prestigio. Invece, all’elaborazione ideologica della sinistra italiana nella prima metà del Novecento contribuì un eterogeneo insieme di personalità autonome, indipendenti, anche audaci, ma che il comune non allineamento alle posizioni bolscevico-staliniste del partito condannò all’isolamento in vita e all’oblio dopo la morte. Come il socialista Andrea Caffi, pioniere della lotta rivoluzionaria fin dalla sua partecipazione ai moti russi del 1905, poi critico della prim’ora all’autoritarismo dei bolscevichi di Lenin tanto da finire, nel 1920, prigioniero della Ceka alla Lubjanka; riparato a Parigi, fu tra i primi animatori dell’antifascismo di Giustizia e libertà fino a quando non ruppe anche con Carlo Rosselli. O come l’anarchico Camillo Berneri, che già nel 1915 aveva abbandonato il Partito socialista (che allora includeva ancora la componente comunista, staccatasi solo nel 1921) accusandolo di essersi fatto accecare da una fede assoluta nel mito rivoluzionario anche a costo di cedere ai compromessi del "gradualismo"; tra i pochi antifascisti italiani capaci, negli anni Trenta, di contestare coerentemente sia i totalitarismi di destra sia quelli di sinistra, finì ucciso dai miliziani stalinisti durante la Guerra civile spagnola. Ma anche come un comunista a tutto tondo come Angelo Tasca: fondatore con Gramsci, Togliatti e Terracini de "L’ordine nuovo", tra i promotori nel ’21 della scissione dei comunisti dal Partito socialista, membro del comitato centrale del Pci e rappresentante dell’Internazionale comunista, cadde in disgrazia nel 1929, quando entrò in contrasto con Stalin, che accusava essere il «liquidatore dello spirito e delle conquiste della Rivoluzione d’ottobre». Il dittatore sovietico e il comunista italiano si presero ripetutamente a male parole, e Tasca fu espulso dal partito. «Eretico per predestinazione», come lui stesso si definiva, negli anni Trenta andò elaborando un proprio originale contributo al pensiero politico della sinistra, proponendo – scrive Daniela Muraca nel suo contributo su Tasca a
L’età del comunismo sovietico – «il superamento delle gabbie ideologiche, concettuali e semantiche del modello marxista come un passaggio imprescindibile per una rifondazione del socialismo, operata sulla base di un umanesimo innervato dei valori della tradizione cristiana, sul rifiuto della teoria classista e sul recupero della considerazione dell’individuo in quanto persona». Si avvicinò così all’abbazia di Poligny, cenacolo intellettuale e fucina dei "cattolici in ricerca" che gravitavano intorno a Paul Desjardins, e affinò via via la sua concezione "umanistica" del socialismo. Una concezione che aveva sempre meno punti in contatto con quella del Partito comunista che pure aveva contribuito a fondare, e del quale già negli anni Trenta denunciava con lucidità «i rapporti di subordinazione all’Urss». Nel dopoguerra fu il primo a smascherare la falsità del mito che il Pci ufficiale poneva alle sue origini, tutte fatte risalire al binomio Gramsci-Togliatti. E il partito non gliela perdonò: ci fu chi gli diede apertamente del fascista, e Tasca finì la sua carriera a fare il consulente – "esperto di comunismo" – per la Nato.
LE FIGUREAmadeo Bordiga. Napoletano classe 1889, negli anni Dieci si segnalò per l’intransigente opposizione al clientelarismo meridionale prima e per il neutralismo poi. Membro del Psi dal ’10, dopo la Grande guerra fu a capo della frazione comunista, che nel Congresso di Livorno del ’21 guidò alla scissione. Primo segretario del Pci, ne fu espulso nel ’30 e si ritirò dalla politica attiva. Morì dimenticato nel ’70.
Andrea Caffi. Nato (nel 1887) e cresciuto a Pietroburgo, partecipò alla rivoluzione del 1905. Dopo la guerra si scontrò con il regime bolscevico. Esule prima a Roma e infine a Parigi, morì in solitudine nel ’55.
Camillo Berneri. Nato a Lodi nel 1897, militò nel Psi fino al ’15, quando entrò nel movimento anarchico. In trincea durante la guerra, inviato al confino nel ’19, nel ’36 si sposta in Spagna per contribuire alla Guerra civile. Fu ucciso dagli stalinisti a Barcellona nel ’37.
Ante Ciliga. Istriano di Marzana, Ciliga (1989-1992) fu segretario del Partito comunista croato. Inviato a Mosca come docente alla Scuola di partito, nel ’29 partecipa alla "rivolta" contro la politica jugoslava del Comintern. Deportato in Siberia, ripara a Parigi e, nel dopoguerra, a Roma, dove vive nell’indifferenza fino al ’90, quando torna in patria di nuovo indipendente.
Angelo Tasca. Nato nel 1892, cuneese, nel ’19 fondò "L’ordine nuovo" e nel ’21 aderì al Pci. A Mosca per l’Internazionale comunista nel ’28, nel ’29 si scontra con Stalin e viene espulso. A Parigi si avvicinò prima al "Monde" di Barbusse, poi all’abbazia di Poligny e ai socialisti francesi. Aderisce inizialmente a Vichy, salvo poi - disilluso - aiutare i partigiani francesi. Dopo la guerra abbandona la politica attiva; muore a Parigi nel ’60.
Bruno Rizzi. Mantovano di Poggio Rusco, classe 1901, dal Pci migrò negli anni Trenta verso il trotskismo. Contestatore sociale nel ’68 e in seguito vicino agli anarco-situazionisti, morì nel ’77.