Per quelli che la guerra l’hanno vista solo nei telegiornali o al cinema, arrivare a Sarajevo, sul viale dei cecchini, è un pugno nello stomaco. I cimiteri con le loro stele bianche che popolano le colline intorno alla città ti fanno andare con la mente a quelle diecimila persone vittime di una lotta fratricida che per anni ha visto opposti figli della stessa terra. E i bambini che agli incroci fanno a gara per lavare i vetri alle auto non possono non farti correre un brivido lungo la schiena pensando ai loro millecinquecento coetanei morti cercando di schivare le granate. Mentre ti sfilano davanti agli occhi i palazzi con ancora i segni delle mitragliate ti chiedi se la musica in questi dodici anni sia riuscita in qualche modo a lenire le ferite ancora sanguinanti di questa terra. La musica che nel 1997 Riccardo Muti e il Ravenna festival hanno portato tra le macerie ancora fumanti di Sarajevo, prima tappa del cammino delle Vie dell’amicizia. La musica che l’altra sera il direttore d’orchestra con sottobraccio la stessa partitura di allora, l’Eroica di Beethoven, è tornato a proporre in un concerto nel cuore di quella che ricorda come «la città più tragica incontrata nel nostro cammino». La risposta non tarda. E arriva non solo da chi la guerra l’ha vissuta sulla propria pelle – sul volto scavato dei vecchi che per strada ti tendono la mano a chiedere qualche centesimo non puoi non leggere le ferite dell’anima – ma soprattutto dai loro figli e dai loro nipoti. Da quei cento bambini che a conclusione del concerto salgono sul palco e intonano insieme agli artisti del Maggio musicale fiorentino il Va’ pensiero. Piccoli di Sarajevo, Sebrenica, Tulzla e Mostar le cui voci «hanno colorato di speranza la pagina verdiana a riprova che se si trasmette l’amore per la cultura già ai fanciulli si formano uomini migliori» dice Muti ancora commosso dal bacio che due bambine gli hanno stampato sulla guancia. Piccoli ai quali è stato dedicato il concerto: una grande scritta sul palco, «Children together», bambini in- sieme, e l’incasso della serata (che Raiuno trasmetterà il 30 luglio) che andrà a finanziare progetti finalizzati all’educazione musicale. La musica, ancora una volta, è riuscita a parlare a tutti. La carovana italiana partita lunedì mattina da Ravenna – ma un guasto all’aereo ha ritardato di quattro ore il decollo mettendo a rischio il concerto tanto che da Sarajevo era già pronto a partire un velivolo della Nato per portare Muti e orchestra direttamente sul palco – è tornata nel cuore dei Balcani dopo aver fatto tappa, tra l’altro, a Beirut, Gerusalemme, New York, Damasco, Il Cairo.È tornata in una nazione, la Bosnia Erzegovina, che oggi, a differenza di 12 anni fa, ha un suo inno. Quello che risuona accanto all’Inno di Mameli e che commuove i novemila spettatori dell’Olympic Hall Zetra. Un appello alla pace e alla fratellanza che Muti affida, oltre che al Va’ pensiero, alla monumentale sinfonia beethoveniana e a due pagine di Brahms, la Rapsodia per contralto, coro maschile e orchestra su testo di Goethe con la voce di Daniela Barcellona e il Canto del destino con i versi di Hölderlin. Il pubblico risponde composto, si alza in piedi per tributare un lungo e affettuoso applauso a Muti quando il sindaco di Sarajevo, Alija Behmen, consegna al maestro le chiavi della città. «Il consiglio comunale all’unanimità ha deciso di tributarle questo riconoscimento anche se una chiave non le serve dato che già 12 anni fa ha aperto le porte della nostra città con la musica» dice il primo cittadino. Una decisione non scontata in una terra dove si fatica ancora a mettere tutti d’accordo. «A Sarajevo le tre religioni monoteiste oggi convivono pacificamente, ma basta andare nei piccoli paesi per accorgersi come sotto le ceneri covi ancora l’odio » racconta a fine serata un carabiniere della Forza Nato guidata dall’Italia.