mercoledì 15 luglio 2009
Il maestro torna a dirigere dopo 12 anni nella città martoriata
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Per quelli che la guerra l’hanno vista solo nei tele­giornali o al cinema, arrivare a Sarajevo, sul via­le dei cecchini, è un pugno nello stomaco. I ci­miteri con le loro stele bianche che popolano le colline intorno alla città ti fanno andare con la mente a quelle diecimila persone vittime di una lotta fratricida che per anni ha visto opposti figli della stessa terra. E i bambi­ni che agli incroci fanno a gara per lavare i vetri alle au­to non possono non farti correre un brivido lungo la schiena pensando ai loro millecinquecento coetanei morti cercando di schivare le granate. Mentre ti sfilano davanti agli occhi i palazzi con ancora i segni delle mi­tragliate ti chiedi se la musica in questi dodici anni sia riuscita in qualche modo a lenire le ferite ancora san­guinanti di questa terra. La musica che nel 1997 Ric­cardo Muti e il Ravenna festival hanno portato tra le macerie ancora fumanti di Sarajevo, prima tappa del cammino delle Vie dell’amicizia. La musica che l’altra sera il direttore d’orchestra con sottobraccio la stessa partitura di allora, l’Eroica di Beethoven, è tornato a proporre in un concerto nel cuore di quella che ricor­da come «la città più tragica incontrata nel nostro cam­mino». La risposta non tarda. E arriva non solo da chi la guer­ra l’ha vissuta sulla propria pelle – sul volto scavato dei vecchi che per strada ti tendono la mano a chiedere qualche centesimo non puoi non leggere le ferite del­l’anima – ma soprattutto dai loro figli e dai loro nipoti. Da quei cento bambini che a conclusione del concerto salgono sul palco e intonano insieme agli artisti del Mag­gio musicale fiorentino il Va’ pensiero. Piccoli di Saraje­vo, Sebrenica, Tulzla e Mostar le cui voci «hanno colo­rato di speranza la pagina verdiana a riprova che se si trasmette l’amore per la cultura già ai fanciulli si for­mano uomini migliori» dice Muti ancora commosso dal bacio che due bambine gli hanno stampato sulla guan­cia. Piccoli ai quali è stato dedicato il concerto: una gran­de scritta sul palco, «Children together», bambini in- sieme, e l’incasso della serata (che Raiuno trasmetterà il 30 luglio) che andrà a finanziare progetti finalizzati al­l’educazione musicale. La musica, ancora una volta, è riuscita a parlare a tutti. La carovana italiana partita lunedì mattina da Raven­na – ma un guasto all’aereo ha ritardato di quattro ore il decollo mettendo a rischio il concerto tanto che da Sa­rajevo era già pronto a partire un velivolo della Nato per portare Muti e orchestra direttamente sul palco – è tor­nata nel cuore dei Balcani dopo aver fatto tappa, tra l’al­tro, a Beirut, Gerusalemme, New York, Damasco, Il Cai­ro.È tornata in una nazione, la Bosnia Erzegovina, che oggi, a differenza di 12 anni fa, ha un suo inno. Quello che risuona accanto all’Inno di Mameli e che commuove i novemila spettatori dell’Olympic Hall Zetra. Un ap­pello alla pace e alla fratellanza che Muti affida, oltre che al Va’ pensiero, alla monumentale sinfonia beethove­niana e a due pagine di Brahms, la Rapsodia per con­tralto, coro maschile e orchestra su testo di Goethe con la voce di Daniela Barcellona e il Canto del destino con i versi di Hölderlin. Il pubblico risponde composto, si alza in piedi per tributare un lungo e affettuoso applauso a Muti quando il sindaco di Sarajevo, Alija Behmen, con­segna al maestro le chiavi della città. «Il consiglio co­munale all’unanimità ha deciso di tributarle questo ri­conoscimento anche se una chiave non le serve dato che già 12 anni fa ha aperto le porte della nostra città con la musica» dice il primo cittadino. Una decisione non scon­tata in una terra dove si fatica ancora a mettere tutti d’accordo. «A Sarajevo le tre religioni monoteiste oggi convivono pacificamente, ma basta andare nei piccoli paesi per accorgersi come sotto le ceneri covi ancora l’o­dio » racconta a fine serata un carabiniere della Forza Na­to guidata dall’Italia.
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