martedì 13 agosto 2024
«La globalizzazione è stata la continuazione del colonialismo e il suo dominio è stato possibile grazie alla tecnologia»
Il filosofo Yuk Hui

Il filosofo Yuk Hui - WikiCommons/Yuk Hui

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«Credo serva diversificare e perfezionare un sistema tecnico omogeneizzante e opporre resistenza a un destino predefinito dallo sviluppo tecnologico», scrive così Yuk Hui, docente alla Università Erasmus di Rotterdam e uno dei più interessanti filosofi oggi all’opera, in Tecnodiversità (pagine 150, euro 18,50), dal 15 agosto in libreria per l’editore Castelvecchi.

Professore, quali sono stati gli effetti negativi della globalizzazione?

«Riscaldamento globale, crisi ecologica, paura di guerre imminenti e dell’apocalisse dell’intelligenza artificiale sono emersi da un complesso di ragioni storiche ma uniti dallo sviluppo della tecnologia moderna. Si pensava che il mondo dovesse essere ordinato una volta ridotto a calcolo e manipolazione».

Come si è affermata?

«Portando la modernizzazione al di fuori dell’Europa. Si è diffusa con la tecnologia e l’industrializzazione, perché per fare fronte al potere coloniale è stato inevitabile, per le realtà extraeuropee, partecipare alla stessa competizione economica e militare. Così è avvenuta la sincronizzazione delle storie attraverso le tecnologie, e tutte le civiltà sono state unite dalla tecnologia moderna. Ora siamo convergenti su un asse temporale globale».

Si è diffusa spontaneamente…

«La globalizzazione è la continuazione della colonizzazione, che Alexandre Kojève ha chiamato, negli anni ‘50, colonizzazione dalla prospettiva europea. Invece di “prendere” come faceva il vecchio colonialismo, il nuovo colonialismo “dà” per fidelizzare buoni clienti».

Oggi si può parlare della sua fine?

«Dalla caduta del muro di Berlino, abbiamo visto l’affermarsi di quella che chiamo ideologia termodinamica, vale a dire il trionfo del libero mercato e la sconfitta della cosiddetta società chiusa. Ma questa situazione è giunta al termine con la pandemia, quando gli USA pretendevano il decoupling e la Cina ha risposto sostenendo la globalizzazione e il libero mercato. Qualcosa di inimmaginabile negli anni Novanta e all’inizio degli anni Duemila».

E ora?

«Siamo a un passo dalla frammentazione, da intendersi da più angolazioni. Da un lato si potrebbe arrivare di nuovo al localismo e al fascismo. Dall’altro siamo costretti a ripensare il nostro rapporto con la tecnologia, il rapporto tra tecnologia e località, ma anche il rapporto tra le località. In gioco è quella che chiamo individuazione del pensiero, in risposta a Martin Heidegger, Jan Patocka, Jacques Derrida e anche ai filosofi della Scuola di Kyoto».

Come arrivarci? Lei parla di le cosmotecniche e tecnodiversità…

«Per superare la modernità e rispondere ai suoi problemi, dovremo riaprire la questione della tecnologia. E qui entra in gioco la tecnodiversità. Invece di comprendere la tecnologia come un universale, dovremo riscoprire una molteplicità di cosmotecniche e le loro storie. Il concetto di cosmotecnica sfida il modo in cui filosofia, antropologia e storia nel XX secolo hanno inteso la tecnologia».

Cioè?

«Partiamo dalla filosofia e in particolare dalla celebre conferenza di Martin Heidegger La questione della tecnica. Egli propose una rottura tra la téchne degli antichi greci e la tecnologia moderna. L’essenza della téchne sarebbe la poiesis, cioè il portare alla luce, mentre la tecnologia moderna o Gestell riduce tutto a riserva di risorse o risorse da sfruttare. Ma l’analisi di Heidegger ha preso in considerazione la tecnologia antica indiana, cinese o amazzonica? Sicuramente queste tecnologie sono diverse dalla tecnologia moderna, ma sono assimilabili alla téchne greca?»

E per l’antropologia?

«L’invenzione e l’uso di strumenti sono ritenuti determinanti per l’ominazione, come ha dimostrato il paleontologo André Leroi-Gourhan. Per lui la tecnica consente un’estensione degli organi e un’esteriorizzazione della memoria. Così intesa la tecnologia è antropologicamente universale. Non è sbagliato, nella misura in cui l’esteriorizzazione e l’estensione derivano da ciò che Leroi-Gourhan definisce “tendenza tecnica”. Ma si devono anche spiegare quelli che chiama “fatti tecnici”, diversi da regione a regione e da cultura a cultura. Cosa è intrinseco in essi a parte l’essere semplicemente contingenti?»

Ma anche la storia delle tecnologie lo conferma?

«Joseph Needham ha posto una questione spaesante. Perché la scienza e la tecnologia moderne non si sono sviluppate in Cina e India, visto il grande sviluppo scientifico e tecnologico della Cina prima del XVI secolo? Riprendendo il lavoro di Needham, diverse ricerche hanno indagato lo sviluppo tecnologico in diverse regioni del mondo mostrando, per esempio, che una è più avanzata nella produzione di carta e un’altra in metallurgia. Ma è una distorsione della questione sollevata da Needham, che suggerisce come sia impossibile confrontare scienza e tecnologia cinesi con quelle occidentali, perché fondate su epistemologie e filosofie diverse».

Come articolare nuovamente queste differenze?

«Sono alcune frontiere che il concetto di cosmotecnica tenta di rinegoziare, perché implicano tutte un concetto universale di tecnologia, residuo del desiderio di un particolare tipo di pensiero. Come definizione preliminare, la cosmotecnica è da intendersi come unificazione tra l’ordine cosmico e l’ordine morale attraverso attività tecniche, per suggerire che la tecnologia dovrebbe essere ricollocata in una realtà più ampia, che la abilita ma anche la limita. Il distacco della tecnologia da tale realtà è derivato dal desiderio di essere universalizzata e diventare il fondamento di ogni cosa. Tale desiderio è reso possibile da colonizzazione, modernizzazione e globalizzazione, che, attraverso crescita economica e espansione militare, ha dato origine a una cultura mono-tecnologica in cui la tecnologia moderna diventa la principale forza produttiva e determina il rapporto tra esseri umani e non umani, tra esseri umani e cosmo e tra natura e cultura. I problemi causati da questa cultura mono-tecnologica stanno portando all’esaurimento delle risorse e della vita sulla terra e alla distruzione dell’ambiente».

Dalla tecnodiversità emergerà un nuovo nomos della terra, per dirla con Carl Schmitt?

«Penso che nessun pensatore prima di Schmitt abbia messo la tecnologia al centro della filosofia politica. Forse Hegel, ma la questione della tecnologia in Hegel non è mai stata così esplicita come Schmitt l’ha posta. Tuttavia, non credo che ciò che Schmitt chiama il Großraum, un progetto continuato da Alexander Dugin in ciò che chiama Eurasia, sia una risposta all’impasse di cui abbiamo parlato. Dopo lo stato-nazione e il Großraum, abbiamo bisogno di un modo diverso di pensare alla diplomazia, epistemologica la chiamo, che coltivi la diversificazione di un sistema tecnico omogeneizzante. Per questo propongo una diversa agenda, o piuttosto una nuova matrice, composta da biodiversità, noodiversità e tecnodiversità.

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