mercoledì 5 dicembre 2012
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Quando un autore è grande, è grande in tutto, perfino nelle sue apparenti incoerenze. E anche di questo l’esperienza di J.R.R. Tolkien costituisce una prova più che convincente. Nel 1939, in uno snodo del saggio «Sulle fiabe», l’illustre medievista di Oxford sembra non avere dubbi: «Per quanto buone in se stesse, le illustrazioni non rendono un buon servizio alle fiabe», scrive. All’impulso generativo con cui la letteratura colpisce la nostra immaginazione si contrappone infatti il sistema “chiuso” di immagini mediante il quale le altre arti (non escluso il teatro) «impongono una forma visibile». Segue un esempio tanto stringente da risultare inappellabile: «Se una storia dice: “salì sulla collina e vide un fiume giù nella valle”, l’illustratore può cogliere, più o meno, la sua personale visione di una simile scena; ma chiunque oda queste parole avrà un’immagine sua propria, che sarà fatta di tutte le colline, e i fiumi, e le valli che ha visto, ma soprattutto della Collina, del Fiume, della Valle che costituiscono per lui la prima incarnazione della rispettiva parola».Bene. Anzi, benissimo, non fosse che Tolkien non è solo un filologo, ma anche il narratore che un paio di anni prima ha corredato di disegni originali il suo romanzo d’esordio. Parliamo dello Hobbit, è chiaro, o più precisamente di L’arte dello «Hobbit» di J.R.R. Tolkien (pagine 144, euro 29), senza dubbio la più interessante fra le molte strenne che Bompiani manda in libreria per salutare l’ormai imminente arrivo del film con cui Peter Jackson – già acclamato regista del Signore degli Anelli cinematografico – inaugura la trilogia tratta da quest’altro capolavoro del fantastico. Riunite e commentate da Wayne G. Hammond e Christina Scull, nel volume trovano posto tutte le illustrazioni che lo scrittore realizzò per l’edizione originale. Mappe e bozzetti apparivano peraltro già nel «manoscritto domestico» dello Hobbit, nel quale Tolkien aveva messo a frutto la sua lunga esperienza di pittore dilettante. L’apparato cartografico fu il primo a essere approvato dall’editore George Allen & Unwin. Di tavola in tavola, però, del libro pubblicato nel 1937 l’autore finì per curare ogni particolare, comprese la sovraccoperta e le iscrizioni sulla rilegatura.Come mettere d’accordo l’immagine interiore di Collina, Fiume e Valle con le colline, i fiumi e le valli tratteggiati dall’autore in persona? Una prima risposta, scherzosa fino a un certo punto, sta nel fatto che il Tolkien pittorico è paesaggista più che ritrattista. Anche quando deve raffigurare il protagonista del libro, il coraggioso «mezzuomo» Bilbo Baggins, preferisce le inquadrature scorciate, che permettono di non diffondersi troppo in dettagli. Molto più riuscite sono le vedute di Hobbiton o della elfica Rivendell (il «Gran Burrone» della traduzione italiana), né è casuale che in questa come in altre ambientazioni gli scenari ricostruiti da Jackson e dalla sua équipe ricordino da vicino l’archetipo tolkieniano. Ecco, ci siamo: “archetipo” è il concetto decisivo. Anziché essere considerate strettoie che minacciano di imbrigliare la fantasia del lettore, le illustrazioni di Tolkien vanno adoperate come vie d’accesso all’immaginazione dell’autore, quasi fossero una delle numerose “appendici” che – non diversamente dalle famose cartine, dagli alfabeti in uso nella Terra di Mezzo, dalle cronologie e dalla rutilante mitografia del Silmarillion – consentono di mettere a fuoco premesse e intenzioni della saga. Nessuna contraddizione, quindi. Semmai, una conferma dell’intima coerenza dell’intero edificio tolkieniano.Anche senza questo antecedente d’autore e molto prima dell’attuale versione cinematografica, Lo Hobbit vanta comunque una storia iconografica di tutto rispetto. Il documento più rappresentativo è probabilmente la riduzione a fumetti allestita fra il 1989 e il 1990 da David Wenzel (anch’essa disponibile nel catalogo Bompiani). È, in un certo senso, l’estrema propaggine dell’interpretazione di Tolkien in chiave “controculturale” nata negli Stati Uniti nell’ambito delle proteste giovanili degli anni Sessanta e della quale si trovava traccia anche nell’irrisolto Signore degli Anelli portato sullo schermo da Ralph Bakshi nel 1978. L’anno precedente anche Lo Hobbit aveva avuto la sua trasposizione per immagini in un peraltro trascurabile lungometraggio d’animazione destinato al mercato televisivo. Oggi i volti del buon Bilbo e della sua metà oscura, il malvagio Gollum, sono un po’ dappertutto, perfino nelle schermate di alcune slot machine che hanno provocato la giusta indignazione degli eredi di Tolkien. Il quale di certo non aveva in mente il gioco d’azzardo quando affermava che «l’Evasione è una delle principali funzioni della fiaba».
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