sabato 31 agosto 2013
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«Io vado con te, rete e bagliore, //e colpirò quando tu colpirai, per uccidere. / Entrambi annichiliti nell’esca. / Tu non reggerai una gola piena di ferro. / Io tornerò a casa, odoroso di pesce, squamoso». La poesia s’intitola Il pescatore di salmoni al salmone (da Una porta sul buio, Guanda, 1996). Nei versi finali abbiamo la condensazione del procedimento linguistico in cui Heaney eccelle: vicende eterne in immagini concrete, secondo i principi del correlativo oggettivo di Eliot. Qui l’archetipico conflitto tra uomo, essere storico, e animale acquatico, essere atemporale: il dramma di Moby Dick vissuto in una scena di pesca comune in Irlanda, dove è nato e vissuto l’autore. E dove ieri è deceduto, a Dublino, prima di un intervento chirurgico. A 74 anni, l’età a cui si spense William Butler Yeats, il massimo poeta irlandese e uno dei maggiori di ogni lingua e tempo. Premio Nobel per la letteratura, come Heaney. Grandi tributi al mondo della piccola Irlanda, che Heaney rappresenta come origine e confine: un’isola che scompare continuamente, un’identità dell’uomo che è centro e orizzonte. Con Luzi, Bonnefoy, Soyinka, Walcott, Séamus Heaney è uno dei grandi poeti che dal Novecento e verso il nuovo millennio definiscono, per citare un titolo dello stesso Derek Walcott, una «mappa del nuovo mondo». L’opera di Séamus Heaney (di cui è in uscita un Meridiano Mondadori a cura di Marco Sonzogni e con introduzione di Piero Boitani, e che avuto molte edizioni italiane) nasce da una compassione cosmica e microcellulare: l’uomo e l’animale partecipano della stessa realtà vivente del globo, inclusi nella nebulosa di acqua e terra in cui confliggono e si fondono mito e storia, rito e vita quotidiana. Heaney si immerge subito negli elementi primi: in Ondina, una lirica straordinaria, chi parla è una piccola creatura, una ninfa dell’acqua, che scopre e ama l’uomo, il contadino, il quale scavando un canale con la vanga e altri attrezzi le apre la via alla vita. «Recise le eriche, spalò grigia melma / per darmi servitù di passaggio nei miei canali, / e mi slanciai verso di lui, mi pulii della ruggine: // Lui si fermò, vedendomi finalmente svestita, / correre libera, serena, spensierata» (da Una porta sul buio). In Heaney, che santifica con la sua poesia il lavoro manuale (del contadino, del fabbro, del torbiere, dello scavatore), non riscontriamo solo un’oggettiva poetica dell’umiltà (o dell’immedesimazione, o dell’impersonalità del poeta, immerso, sulla scia di Dante, Shakespeare, Keats, nella realtà della propria avventura) ma anche della vitalità incandescente del mito in ogni atto o evento quotidiano. In modo simile ai grandi scrittori africani del Novecento Achebe, Kane, Kouruma, Soyinka, l’irlandese Heaney vede e rappresenta il mito nello svolgersi del lavoro di ogni giorno, nel suo continuo rigenerarsi nelle opere. D’altronde, come Alan Parker fa dire a un suo personaggio (nei Commitments tratti dal romanzo di Doyle): «gli irlandesi sono i neri d’Europa». Scavando, suo titolo famoso (Fondazione Piazzolla, 1991) ferma nella sua opera la figura del poeta come colui che con la penna incide il suolo per trovare i tesori e i misteri, anche terribili, che vi sono sepolti e celati. La poesia di Heaney è scavo sotto la superficie della terra, racconto di una ricerca che nel mondo fossile scopre i legami tra i vivi e i morti. La sua discesa agli inferi è, modernamente, discesa paleontologica all’origine della specie e della vita, ma anche, secondo un modulo antico, accesso alla forza radiante degli elementi, al loro nudo magnetismo, al lucore del fango, alla lucentezza della pietra, alla sofficità dell’argilla, allo splendore del buio. Da uno scavo, una sconvolgente scoperta archeologica, nasce il capolavoro assoluto di Heaney, North (Mondadori, 1998), il viaggio compassionevole agli inferi che nel Novecento risponde ai Sepolcri di Foscolo. Nel 1969, in una torbiera in Irlanda, una scoperta straordinaria: corpi risalenti alla civiltà vichinga conservati perfettamente, con la pelle, i capelli, gli abiti e gli oggetti: la regina, la ragazza giustiziata per adulterio, un intero mondo che emerge dalla palude, immobile e intatto. Questa realtà ispirerà il nucleo forte del libro, North, in cui la civiltà dissepolta diviene luogo d’incontro di mito e cronaca. La torba a sua volta si rivela il luogo naturale e magico da cui emerge il passato, simile a quella zona indescrivibile da cui scaturisce la poesia. In questo viaggio in una civiltà fissata nella morte, il poeta interroga la specie, si specchia con tutto il suo mondo contemporaneo e il suo passato storico e individuale nella sedimentata, fossile realtà dell’uomo e della civiltà: conosciuta ogni terra, attraversato ogni mare, inquieto e inappagato dal cielo, l’uomo abbassa lo sguardo in fondo, sotto di sé, dentro di sé, nella buia caverna che dal tempo conduce al pretempo, verso l’origine. Scavando. L’atto centrale di tutta l’opera, di ogni libro e di ogni verso di uno dei grandi poeti metafisici, sulla scia di John Donne e Eliot, dove visione e quotidiano coincidono.
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