martedì 26 giugno 2012
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Il linguaggio rappresenta una proprietà bioculturale, unica e distintiva dell’uomo. Richiede strutture anatomiche, regolate da geni, ma si apprende. Negli studi preistorici si pongono tante domande: come si è evoluto? Quando l’uomo ha incominciato a parlare? Certamente non va confusa l’origine del linguaggio con quella delle lingue parlate oggi, per le quali si cerca di ricostruire le parentele e le radici e si cercano analogie con gli alberi genetici delle attuali popolazioni. Purtroppo il linguaggio non fossilizza e ci dobbiamo accontentare di documenti indiretti. Molti autori ritengono il linguaggio una prerogativa dell’uomo anatomicamente moderno, sviluppatosi in Africa intorno a 100.000 anni fa. Ma vi sono buoni argomenti, di carattere anatomico, archeologico e culturale, che depongono per un’acquisizione molto antica del linguaggio, inteso come capacità di emettere suoni articolati con contenuto simbolico. Lo suggeriscono l’abbassamento della laringe, desumibile dalla morfologia della base cranica di esemplari di Homo erectus, per fare spazio alla emissione dei suoni, e soprattutto sembrano attestarlo le impronte nell’endocranio delle aree cerebrali del linguaggio (di Broca e di Wernicke nell’emisfero sinistro), riconoscibili già in Homo habilis. È poi da sottolineare la particolare relazione tra la tecnologia e il linguaggio, specialmente per la trasmissione della tecnica di lavorazione della pietra. Studi recenti su strumenti olduvaiani di Koobi Fora (Kenya), risalenti a 1,5 milioni di anni fa, rivelano l’uso preferenziale della mano destra, ricollegabile a centri nervosi dell’emisfero sinistro, prossimi all’area del linguaggio di Broca. Ma c’è di più. Se n’è parlato in una Conferenza internazionale tenutasi a Kyoto sulla evoluzione del linguaggio nel marzo scorso, di cui riferisce la rivista 'Science'. Su persone esperte che riproducevano schegge di tipo olduvano e bifacciali acheuleani, con tecniche presumibilmente impiegate dagli uomini preistorici, è stata registrata l’attività elettrica delle aree cerebrali coinvolte nella lavorazione. Le aree attivate (che si localizzano nell’emisfero cerebrale sinistro) appaiono in stretta connessione con quelle della fonazione. Esse presentano maggiore complessità nella riproduzione dei bifacciali, strumenti più evoluti rispetto alla industria su ciottolo. In altro esperimento è stata registrata, mediante risonanza magnetica funzionale, l’attività elettrica cerebrale in soggetti che osservavano altri lavorare la selce (una operazione che sfrutta le attuali conoscenze sui neuroni specchio) e si è visto che gli osservatori più abili a scheggiare davano risposte migliori. La riproduzione delle tecniche di scheggiatura e la registrazione della relativa attività elettrica cerebrale indirettamente suggeriscono che negli artigiani preistorici fossero in azione le stesse aree cerebrali strettamente connesse con quelle del linguaggio. Tutto conferma un nesso tra la fabbricazione di strumenti e capacità di linguaggio. Con il tempo i soggetti con migliori capacità tecnologiche avrebbero anche sviluppato attitudini linguistiche più affinate. Forme di comunicazione simbolica attraverso il linguaggio dovrebbero essere antiche quanto l’uomo, da quando cioè l’ominide ha manifestato comportamenti culturali specifici dell’uomo, come la lavorazione intenzionale della selce, nella quale è via via progredito. Dunque l’uomo di due milioni di anni fa parlava? Non certo come noi. Doveva essere in grado di comunicare attraverso fonemi semplici, ma con significato e nesso logico. Quanto basta per una forma di linguaggio, rivelatrice di intelligenza astrattiva. L’uomo era 'technologicus e loquens', perché 'symbolicus'.
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