Di nemici se ne intende. Ma anche di amici, per fortuna. Nella sua vita Marek Halter ha conosciuto gli uni e gli altri, passando dalla Polonia (è nato nel 1936 a Varsavia, nel cuore del Ghetto) all’Uzbekistan sovietico per poi stabilirsi in Francia. «Ho vissuto anche a Buenos Aires – ricorda – e in Plaza de Mayo ho incrociato per qualche minuto il cardinal Bergoglio, da cui sono rimasto molto colpito. Si vede che è il mio destino: con Giovanni Paolo II parlavo in polacco, per papa Francesco dovrò rispolverare il
porteño...». L’incontro con il Pontefice potrebbe avvenire nelle prossime settimane e, nelle intenzioni di Halter, è quasi una sintesi del suo percorso: «La guida della cristianità in dialogo con una delegazione di imam musulmani guidata da me, che sono un ebreo – spiega –. Ma è importante che della delegazione facciano parte anche i rappresentanti delle comunità islamiche del Vicino Oriente, dove i cristiani vivono in situazioni sempre più drammatiche». In attesa dell’appuntamento con il Papa, Halter è a Roma per partecipare al festival internazionale Letterature. Il suo intervento è in programma giovedì 27 giugno alla Basilica di Massenzio (ore 21) per una conversazione con lo scrittore Andrea Bajani e il poeta coreano Ko Un sul tema “A tavola con il nemico”. Artista poliedrico, capace di esprimersi attraverso la pittura e il cinema, Halter è qui in veste di romanziere (Newton Compton, che ha pubblicato di recente
Il cabalista di Praga e
Protocollo Cremlino, annuncia per l’autunno
Maria, la madre di Gesù). Più che altro, però, si considera un testimone.
Di che cosa?«Della speranza, che oggi coincide con il dialogo interreligioso – risponde –. Le generazioni che ci hanno preceduto vedevano nell’ideologia una sorta di religione laica, ma oggi tutto questo non esiste più. O si spera in Dio o non si spera in nulla. Non per niente sono così tante le persone che fanno ritorno alle chiese, alle sinagoghe, alle moschee. I luoghi di preghiera sono diventati i luoghi privilegiati dell’incontro: è lì che bisogna andare se si vuole davvero costruire la pace e ritrovare la speranza. Perché senza speranza non possiamo vivere».
Con la fine delle ideologie è cambiata anche la nozione di nemico?«Certamente. Sartre sosteneva che ogni uomo si oppone a un oppressore. Ma chi è il nostro oppressore, in questo momento? A chi dobbiamo opporci? Una risposta molto diffusa individua il nemico nel terrorismo e questo è vero, addirittura indiscutibile. Del resto, già Chateaubriand e il Dostoevskij dei
Demoni conoscono una simile minaccia senza volto. Il quadro che ne deriva è molto preoccupante, specie nel contesto di una crisi come l’attuale. La disperazione può trasformare chiunque in un emissario del male. E sono sufficienti due minuti per scatenare una strage».
La soluzione sta nel dialogo?«Sì, ma è un processo delicatissimo. Dall’Illuminismo in poi abbiamo siamo stati invitati a prestare attenzione principalmente ai valori universali, con il rischio di trascurare le realtà particolari. L’obiettivo, più che nobile, era quello dell’uguaglianza ma, come insegna Shakespeare, essere uguali non significa affatto essere identici. Abbiamo dimenticato che ogni gruppo umano ha le sue tradizioni, la cui conoscenza e condivisione rappresenta un arricchimento reciproco. Questo è già evidente per quanto riguarda le consuetudini gastronomiche: in una grande città come Parigi possiamo scegliere se cenare con il sushi o con il cous cous, se mangiare una pizza o degustare la cucina francese. A maggior ragione dovremmo essere in grado di entrare in contatto con la cultura degli altri, con la loro storia, con la loro mentalità. Sa qual è la vera differenza tra me e il presidente Obama?»
Me lo dica lei.«Di sicuro non il colore della pelle. La memoria, questa è la vera differenza. Quando si trova a prendere una decisione, Obama torna al passato da cui proviene e ritrova dentro di sé la sofferenza di generazioni e generazioni di schiavi africani. Io, invece, sono guidato in ogni momento dalla consapevolezza della Shoah. Non c’è contrasto, in questo. Impariamo gli uni dagli altri, siamo arricchiti da quello che altrimenti non ci apparterrebbe».
È per questo che lei, ebreo, ha scritto un libro su Maria di Nazaret?«Quando ancora stavo lavorando al romanzo, ricevetti una telefonata dell’arcivescovo di Parigi, il cardinal Lustiger, con cui ero in ottimi rapporti. Mi disse: “Marek, mandami il manoscritto in lettura prima di consegnarlo all’editore. Non vorrei che ci fossero delle sciocchezze...”. Glielo mandai, lo lesse e di sciocchezze non ne trovò, anche se la mia Maria è in parte diversa dall’immagine trasmessa da una certa devozione. Per me non è una figura femminile addolorata e sottomessa, ma la prima grande madre ebrea della storia: orgogliosa del figlio, desiderosa di seguirlo nelle sue imprese, piena di fiducia verso di lui. Condivido, in questo, la convinzione di Ben Gurion, per cui Gesù rappresentava la figura più luminosa della storia ebraica. Al suo fianco, però, per me c’è sempre Maria, che non a caso è molto presente anche nel
Corano. Anzi, sembra che nel testo sacro islamico il suo ruolo sia ancora più spiccato: prende la parola più spesso di quanto accada nei Vangeli, per esempio. Ma basta pensare all’episodio delle nozze di Cana per rendersi conto di come, in effetti, molto, se no tutto, dipenda dall’iniziativa della madre».
In Francia è appena uscito il suo nuovo libro: di che si tratta?«Di un
pamphlet, intitolato
Faites-le!, e cioè “fatelo”, “datevi da fare”. Parto dalla mia esperienza: ho cominciato esponendo i mie quadri al piccolo e periferico museo di arte contemporanea di Haifa, nello Stato di Israele, e mi sono ritrovato a parlare di pace con i grandi della Terra. E se ce l’ho fatta io, può farcela chiunque, glielo assicuro. L’importante è muoversi, mettersi in marcia. In fondo anche a Gesù, per cambiare il mondo, sono bastati dodici apostoli».