venerdì 2 aprile 2010
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Un film sulla follia del potere, che racconta le drammatiche vicende di Haiti, e in particolare di uno dei suoi più feroci dittatori, François Duvalier, detto "Papa Doc". Ma più in generale una «metafora del potere politico, giustificato dal voto, e trasformato in un delirio di potenza». Così Raoul Peck, regista haitiano, ha presentato al Festival del cinema africano di Milano la sua pellicola "Moloch Tropical", dopo aver ottenuto ottimi riscontri al Festival di Berlino. Ma Raoul Peck, che è uno dei cineasti e degli intellettuali più interessanti di Haiti, con esperienze di vita in varie parti del mondo – in particolare in Repubblica democratica del Congo, dove ha vissuto diversi anni – non mostra solo uno sguardo corrosivo e disincantato sulle dinamiche del potere, i suoi riti e le sue derive. Quando parla del suo Paese, che ha lasciato da pochi giorni, e della tragedia del terremoto che lo ha messo ulteriormente in ginocchio, sfodera una buona dose di lucidità e realismo. Dal suo Paese, Haiti, e in particolare dalla capitale Port-au-Prince, continuano ad arrivare immagini di distruzione, sofferenza, violenza… A due mesi e mezzo dal terremoto com’è la situazione nell’isola?Devo dire innanzitutto che le immagini trasmesse dai media internazionali sono solo una parte di quello che sta avvenendo ad Haiti. Le tivù cercano immagini forti, storie drammatiche, donne, bambini, violenze, saccheggi, insistendo sul dramma e la tragedia… C’è anche questo, è vero, ma oggi c’è soprattutto la gente che si sta dando da fare per ricostruire le proprie case, prima che arrivino le piogge e per ricostruire la propria vita. Ho visto un popolo straordinario, che si è rimboccato le maniche per ricominciare a vivere».Eppure da qui si ha l’impressione che ad Haiti regni il caos e che anche le grandi agenzie umanitarie internazionali lavorino senza un reale coordinamento… «È vero, c’è una certa disorganizzazione e una mancanza di capacità di reagire e intervenire efficacemente là dove ci sono le necessità più urgenti e le priorità più impellenti. Soprattutto, però, la comunità internazionale non sta valorizzando adeguatamente le potenzialità del popolo haitiano, rendendolo protagonista dalla propria ricostruzione». Qualcuno insinua che dietro ci sia un piano degli Stati Uniti per rimettere, in un modo o nell’altro, le mani su Haiti.«Non credo al complotto. A mio parere, è solo mancanza di organizzazione e coordinamento. Gli aiuti americani sono certamente molto significativi».Eppure, nel suo film, sono chiare le manovre degli Stati Uniti, che hanno messo al potere un loro uomo e non accettano che non rispetti più le regole. Una storia che ad Haiti si ripete…«Non solo ad Haiti. Il mio film non riguarda esclusivamente il mio Paese o le persone che lo hanno governato. È una denuncia contro tutti quei poteri forti e quei dittatori, che opprimono i loro popoli un po’ ovunque nel mondo, con il pretesto di essere stati eletti dalla gente».In effetti in "Moloch Tropical" lei fa ripetere ossessivamente al protagonista, presidente di Haiti, che lui è stato eletto democraticamente. Poi, però, esercita un potere dispotico, vivendo molto lontano dal popolo. È una sua dichiarazione di sfiducia nei confronti del sistema democratico fondato sul suffragio universale?«La democrazia non è qualcosa che è stato inventato una volta per tutte. Dobbiamo tutti continuare a lavorarci, esercitando innanzitutto forme di controllo sull’operato dei nostri governanti. In questo senso, è fondamentale l’indipendenza e la libertà dei media, affinché la democrazia non si riduca a un semplice voto, esercitato come se fosse una mera formalità».Anche lei, però, ha "ceduto" al potere, accettando per un paio d’anni l’incarico di ministro della Cultura nel primo governo Préval…«Nessuno è perfetto! (ride, ndr) È stata un’esperienza difficile e dolorosa, anche se io esprimevo non tanto un’ambizione personale quanto l’esperienza di un gruppo di militanti. Ad ogni modo, ho lasciato molto presto per continuare a essere un artista e un regista mai sottomesso alla forza del potere. Con questo film in particolare ho voluto lanciare anch’io il mio grido di dolore e di collera. Ispirato da quarant’anni di riflessioni e pensieri sulla situazione di Haiti».Dopo l’uragano Jeanne del 2004 e il terremoto dello scorso gennaio – e dopo decenni di politiche disastrose che ne hanno fatto uno dei Paesi più poveri a mondo – qualcuno ha parlato di Haiti come di un Paese maledetto. E il suo film non sprizza ottimismo… Che ne pensa?«Non sono d’accordo. Haiti non è un Paese maledetto. È vero, ha una storia di lotte e di lutti, ma ha in sé anche la capacità di risorgere. E la gente lo sta dimostrando, oggi più che mai, reagendo alla distruzione con grande coraggio e tenacia. La comunità internazionale e i media dovrebbero rendersene conto e valorizzare maggiormente questi sforzi».
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