Un ritratto fiammingo di una beghina
Ho sognato le case delle beghine, le coraggiose che libere come uccelli, e per amore, si mettevano insieme affrontando chissà quali durezze diversamente insopportabili. In Olanda, in Francia, in Germania, in tutta Europa fino a Gerusalemme, senza incardinarsi in ordini religiosi, osservavano i principi di una carità evangelica simile a quella dei primi tempi cristiani, occupandosi di poveri e di ma-lati, elemosinando e studiando i testi sacri, con la guida di una maestra. La scelta le esponeva a rischi. Sebbene non fossero in odore di eresia, e nemmeno in antitesi alla Chiesa, la loro voce non poteva esserne approvata. Nella straordinaria fioritura religiosa dell’XI e XII secolo, nei modelli pauperistici, si preparò la loro decisione.
La più luminosa di tutte quelle voci, è Hadewijch di Anversa, della quale Francesca Barresi ha tradotto per la prima volta tutti i Canti (con la collaborazione di Lorenzo Nespoli, prefazione di Chiara Frugoni, prima edizione italiana integrale, Marietti 1820, pagine 240, euro 19). Un’edizione imprescindibile, che ne mostra bellezza e traversie, fino alla riscoperta tardiva nel XIX secolo, il primo studio di Jozef Van Mierlo nel 1931, la prima antologia italiana di Romana Guarnieri nel 1947.
La lingua di Hadewijch è unica, lirica e assoluta, quella di una cavalleria femminile dell’Ordine dell’Amore. “Minne”, l’Amore, è il principio stesso di Dio, della Trinità: proprio lo Spirito Santo che parlerà nella Pentecoste in molte lingue. Discende da ruah, l’Essere che sulle acque nella Genesi cova le creature in germinazione, insieme alla Parola del Fiat: la Parola del Logos: Gesù Parola incarnata. E l’amante- amata di Minne è la stessa del Cantico dei cantici. Vissuta nella prima metà del XIII secolo, non poteva contare sull’autorevolezza profetica riconosciuta un secolo prima a Ildegarda. Non rischiò il rogo di Margherita Porete, che avendo avuto forse soltanto una maestra senza convivere nella sua casa, e non volendo abiurare tesi ardite fu condannata, consegnando il suo Miroir a una devozione postuma (ricordiamo il primo riconoscimento ed edizione di Romana Guarnieri, e l’intenso Nello specchio di Margherita, di Giovanna Fozzer, 2001).
Ciò che distingue la sapienza teologica di Hadewijch e la sua forza poetica rispetto a quella di altre voci, è la potenza di pensiero, nella profonda cultura del cor gentil. Incarnata nella bellezza della natura, e nella fisiologia dei moti amorosi, così precisa, osservata nelle loro dinamiche di sistole diastole, come nel riprodursi dei fenomeni naturali: il risvegliarsi della primavera, il disseccarsi dell’estate, il cadere delle foglie d’autunno, il congelamento dell’inverno; e il loro incessante ritornare, prorompendo violento come l’urgere della gemma che per esplodere non attende che un raggio di sole. È la stessa incontenibile necessità della vita di Dylan Thomas: «The force that through the green fuse drives the flower»: “la forza che nel gambo verde porta il fiore”. «Tra breve la linfa risalirà / veloce dalle radici del terreno, / fin dove arriva l’occhio / fiori e piante / torneranno a germogliare, / Di ciò abbiamo segno manifesto: gli uccelli cantano felici». Amore è donna «perché è madre di tutte le virtù», perché è «feconda, porta in grembo la sola fedeltà / che rafforza chi ama e ci ha innalzati, / guarendo ogni dolore». È la fonte della giovinezza, una realtà potente, che non declina, ma cresce. L’amore è senza morte, pane vivente, ed è la libertà, la cui verità appare dai segni viventi.
Come Shakespeare nei sonetti, Hadewijch inscena un teatro di passioni naturali e metafisiche di straordinaria verità e bellezza. È ampia e vasta, con i picchi del furor (e dell’amore violento di Riccardo di San Vittore), e con le icasticità della Dickinson. È una miniera di gemme, dagli incommensurabili riflessi. L’ardore delle eroine sotto cui si profila la sua Minne, attraversa il mondo cortese, la Bretagna, il senso dell’amore di Beatrice in Dante, e le avventurose creature di Boiardo. È sicuramente teologica, ma nel contempo aerea e mondana, con le ouvertures nella natura, proprie della poesia d’amore trobadorica.
Se leggiamo Mechtild von Magdeburg, un fuoco della mente ci acceca tra le pareti di un amore segregato in una vita spirituale la cui indicibilità produce infinite forme della Minne, che in lei è tutto fuorché natura, almeno nel modo diretto di Hadewijch. Straordinario e sublime esercizio dell’amore mentale, che giunge a Ignazio de Loyola, e alle interpretazioni di Giovanni Giudici suo traduttore, e poeta di Salutz, in una genialità che non si rispecchia nelle forme del creato, ma al suo interno, per paradosso un 'segreto carcere' dove le immagini della sofferenza di Cristo sono lancinanti motivi amorosi, come in Angela da Foligno, in modo esemplare. Ma quando vediamo quelle immagini lavorate nell’anima di san Francesco (che Chiara Frugoni rievoca), ecco che ci si spalanca un cosmo di vita germinante, appunto, come dalle acque della Genesi, che presto si trasformano in Eden. Ecco che l’albero primordiale si popola di uccelli e di nidi vivi sebbene sia anche croce. Come scriveva Romana Guarnieri, «Hadewijch ritrovò la porta da cui uscirono Adamo ed Eva».