C’è un regista capace di collegare nei suoi film l’acqua e le stelle, l’uomo e il cosmo, un bottone di madreperla e il genocidio di un popolo, il mistero dell’esistenza umana e gli orrori di un passato non ancora elaborato, le esperienze personali e la storia di una nazione, il particolare e l’universale. Suggestioni apparentemente assai distanti ma unite in realtà da legami misteriosi e segreti. Si chiama Patricio Guzmán, è nato a Santiago del Cile 75 anni fa e riesce a coniugare documentario e poesia come nessun altro. Tanto che al Festival di Berlino 2015 il suo
Memorie dell’acqua ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura. Ora il film esce nelle nostre sale il 28 aprile grazie a I Wonder, che distribuirà anche il precedente lavoro di Guzmán,
Nostalgia della luce, realizzato nel 2010, in arrivo il 5 maggio. I due film offrono un’idea piuttosto accurata dello stile di questo regista, delle sue ossessioni, dei temi su cui non ha mai smesso di indagare – primo tra tutti il colpo di Stato e la tragedia dei
desaparecidos – dei luoghi simbolo di un percorso storico e umano unico. Nel deserto di Atacama, in Cile, sono installati i telescopi più potenti del mondo. Mentre gli scienziati esplorano l’immensità del cielo, gli archeologi sondano il terreno alla ricerca delle tracce delle popolazioni precolombiane. Tra gli uni e gli altri si aggira un terzo fronte di ricerca: i parenti dei
desaparecidos massacrati sotto il regime di Pinochet, a caccia dei resti dei loro cari. Il Cile e la sua storia, tra cielo e terra, corpi celesti e corpi umani fatti della stessa sostanza delle stelle, è al centro di
Nostalgia della luce, girato in un luogo in cui il passato è più accessibile che altrove. Il documentario ci offre una profonda riflessione sulla memoria, una struggente indagine su una umanità che affonda le proprie radici non nelle viscere della terra, ma nel cielo, oltre la luce. E così, mentre gli astronomi cercano una risposta alle grandi domande della nostra esistenza e gli archeologi ci conducono alla scoperta di antichi graffiti sulle rocce, le donne di Calama scavano ancora nella terra, alla disperata ricerca delle ossa dei propri cari, sepolti in fosse comuni, dispersi in mare, ritrovati e rinchiusi in scatole di cartone in attesa dell’anima alla quale sono appartenuti. Le immagini dell’immensa bellezza e del mistero del cosmo si uniscono alle dolorose, ancora oggi scioccanti testimonianze dell’insensatezza umana, capace di violenze inaudite. Eppure è proprio l’osservazione delle stelle, così facile attraverso l’aria trasparente e sottile del Cile, a offrire un’altra dimensione al dolore e all’assenza, a svelare un disegno più grande del quale tutti noi siamo parte inconsapevole. Accostati all’immensità dell’universo i problemi dei cileni sarebbero niente, ma messi su un tavolo come biglie, sono paragonabili a una galassia. I telescopi tornano anche in
Memoria dell’acqua. Con il mare gli indios della Patagonia vivevano in totale comunione, perché ogni goccia d’acqua è un mondo a sé stante, un respiro, e racchiude la legge che regola ogni pensiero. E di acqua sarebbero fatte le stelle, che per gli indios del sud erano gli spiriti degli antenati. Poi arrivarono i bianchi e si aprì la caccia ai nativi: un testicolo, un seno, un orecchio valevano una sterlina. Cominciò lo sterminio. Il regista ci racconta la storia vera di Jemmy Button, un indigeno portato in Inghilterra nell’Ottocento per essere “civilizzato”. L’uomo viaggiò mille anni nel futuro per poi tornare indietro. Dopo un anno infatti fu riportato in Patagonia, si spogliò dei suoi abiti, ma non tornò mai più a essere quello di prima, esule tra la sua stessa gente. Aveva accettato di seguire gli inglesi in cambio di un bottone di madreperla (da qui il suo nome, Button), un piccolo oggetto che ci riporta a un altro massacro, quello perpetuato da Pinochet che in sedici anni di dittatura aprì 800 prigioni segrete dove furono torturate almeno 40mila persone, uccise, impacchettate insieme a pesanti pezzi di rotaie e gettate nell’Oceano, tra gli stessi flutti fonte di vita per gli Indios. Ma il Pacifico non mantenne il segreto e restituì il corpo di una donna, dimostrando la disumanità di un regime che aggiungeva strazio a strazio negando ai familiari la magra consolazione di poter piangere i propri morti. Incastonato su una di queste rotaie, recuperate sul fondo del mare, è stato trovato un bottone. Due bottoni raccontano dunque la stessa storia, quella di uno sterminio. La memoria è dunque per Guzmán, arrestato e rinchiuso nello stadio di Santiago nel 1973, l’unico strumento per affrontare finalmente il passato e guardare al futuro in un paese dove solo uno dei suoi quattordici documentari ha trovato spazio in tv, di notte.
Memoria dell’acqua verrà inoltre presentato alla 64° Trento Film Festival che dedica un programma speciale al Cile. L’evento prende il via nella serata di pre-apertura del festival con la proiezione di
Terre Magellaniche, pionieristico documentario realizzato nel 1933 dal religioso ed esploratore padre Alberto Maria De Agostini, risultato dei suoi viaggi in Patagonia e nell’Arcipelago della Terra del Fuoco. Seguirà una selezione di documentari e cortometraggi e il primo omaggio in Italia alla regista di origini piemontesi Tiziana Panizza, figura di riferimento del cinema documentario e sperimentale cileno.