Un tempo gli uomini decisero di smettere, ogni tanto, di prendersi a clavate e inventarono un gioco, che in termini moderni è definito sport, e consisteva nell’esorcizzazione della guerra, in forma di sua simulazione incruenta, non priva però di un vincitore. L’uomo è per natura agonista, ha problemi seri se non lo è del tutto o se lo è troppo. Non risulta che sia universale l’invenzione dello sport, ma è certo che fu diffusa. Anche i Maya hanno, nel loro passato, antenati che esorcizzano la guerra con un gioco di palla, che può anticipare il rugby, o il calcio. Ma in Grecia questo atteggiamento fu radicale, sin dalle origini, come attesta la gara (potremmo dire pentatlon, o decatlon) tra il naufrago Ulisse e i Feaci che lo ospitano nella loro isola ridente e leggera, dove non a caso non esiste violenza, e siamo nel mondo omerico, l’età antica di quella civiltà. Poi nei secoli il rito si formalizza: la lotta a corpo libero sublima il confronto fatale dei guerrieri, come pure il pugilato; il lancio del giavellotto non è mirato a centrare al petto il nemico, fulminandolo, ma a superare in gittata l’avversario, la corsa di velocità non scaturisce dalla necessità di sfuggire a un inseguitore armato, ma a essere semplicemente più veloci di lui. Lo sport esorcizza la guerra ma in Grecia ciò fu scientifico, consapevole, determinato: se oggi ogni quattro anni vediamo le Olimpiadi dobbiamo ringraziare coloro che le inventarono. Se Adolf Hitler dovette ingoiare amaro davanti al trionfo del nero Jessie Owens, lo dobbiamo ai greci. Il rito olimpico, ancor oggi vivente, inventato dai greci, non è l’unico, ma si accosta a un altro ancora più profondo: il teatro. L’uomo vede nascere il teatro come atto cultuale nelle caverne, pitture raffiguranti animali divini, danze, torce, litanie rituali, musiche. In tutto il mondo, eccetto qualche zona dell’estremo oriente, il teatro si mantiene così perennemente, fino al colonialismo e alla globalizzazione, quando il rito degradato diviene attrazione turistica. Ma già nel V secolo a.C. i greci rovesciano il teatro, tramutandolo in spettacolo, introducendo due attori e scene dipinte, creando rappresentazioni tragiche che sono atti rituali (avvengono in occasione di festività religiose, obbligatoria la stesura in versi e l’argomento divino) ma anche spettacolo. Se noi oggi vediamo Shakespeare e Goldoni e Molière e Beckett, è grazie all’invenzione dei greci. Da loro nasce il teatro come lo conosciamo, non solo rito ma recita, spettacolo, che dalla tragedia greca si sviluppa in Europa in tutte le sue forme. Da sempre l’uomo elabora pensiero, interrogandosi sul senso della vita e la realtà dell’universo. Solo in Grecia, nello stesso periodo in cui sorgeva la tragedia, nacque la filosofia, il pensiero regolato dal logos. Da allora l’occidente si esprime filosoficamente. Il Paese più vocazionalmente portato alla filosofia, dopo la Grecia di Aristotele e Platone, è la Germania. Da sempre l’uomo viaggia, per necessità, o commercio, a volte, forse, inconsapevolmente per conoscere. Come i navigatori fenici e quelli fluviali dell’Egitto. La Grecia ci mostra sin dalle origini un uomo che viaggia per conoscere: Ulisse rallenta il suo stesso agognato ritorno perdendosi nei misteri del mondo, affascinato dal loro incanto. Erodoto viaggerà fino in Egitto per conoscere quella civiltà favolosa, e raccontarla. Queste realtà sono impresse nella pagina, per sempre. La Grecia inventa la democrazia. Imperfetta, certo, dato che riservata al sesso maschile, con le donne in condizioni di soggezione. Ma rispetto ai tempi l’agorà, e la discussione pubblica, e il voto, sono invenzioni che non necessitano di commenti. Da sempre l’uomo aspira alla bellezza. Ma la Grecia del Partenone, di Fidia, spinge questa ricerca ai confini col cielo al punto da divenire emblema della bellezza stessa, fino al rischio del luogo comune. L’ideale della bellezza classica incanta i romani, che non sanno replicarla ma la traducono in altre realtà come l’ingegneria idraulica o la costruzione di strade. Incanta i grandi spiriti del Rinascimento, gli artisti italiani che, con il pieno assenso e condivisone di alcuni grandi papi, la fondono con la spiritualità cristiana, cogliendo in quelle forme del mito greco una incontenibile energia spirituale. Che non è pienamente percepita dagli studiosi tedeschi che dal XVIII secolo s’infatuano del mito Grecia, dell’idea Classica. Ne vedono solo la forma, coincidente con un’astratta perfezione. Giungono in alcuni casi a formulare una sorta di religione della grecità e del classicismo, immobile, neopagana. Diverso l’atteggiamento degli inglesi: li attrae anche il mondo dell’India, della Cina, dell’Egitto. La cultura tedesca è quella che più radicalmente ha accolto il modello greco, nella filosofia come nella concezione dell’estetica, con grandi risultati per la cultura e l’identità europea, e con qualche posizione esagerata, a volte confinante con un pericoloso Sublime. Curioso, ma forse non troppo, che in un’Europa che non assomiglia minimamente a una polis, sia la leadership tedesca ad accanirsi contro la permanenza nella zona Euro della Grecia. Se davvero l’Europa riuscirà nell’impresa di buttare a mare la sua culla, allora vuol dire che, citando Amleto, «l’asse del mondo si è sghembato». La malattia, al confine del terminale, non è economica, ma culturale e spirituale.