Nell’estate del 1991, con l’omicidio in Calabria di Antonino Scopelliti, uno dei tre magistrati che doveva sostenere l’accusa nel giudizio in Cassazione del maxiprocesso contro la mafia e con l’assassinio dell’ex sindaco di Palermo, l’europarlamentare Salvo Lima il 12 marzo, poco tempo prima delle elezioni politiche del 1992, si era creato un clima di particolare allarme e tensione. Dell’eliminazione di Lima, al quale, peraltro, i capi di Cosa Nostra attribuivano la colpa di non aver mantenuto la promessa di «aggiustare», come in passato, a loro favore le sentenze, che avevano resi definitivi gli ergastoli, lo stesso Falcone coglieva la portata eversiva, nel senso di una sostanziale rivoluzione dei rapporti tra mafia e politica, tant’è che commentando il delitto mi disse: «Adesso può succedere di tutto». I rapporti tra me e Giovanni Falcone, che mi aveva chiamato come collaboratore al ministero della Giustizia, erano diventati molto stretti, sotto il profilo sia personale, che professionale e quindi capitava spesso che, nei fine settimana in cui rientrava a Palermo da Roma, mi offrisse un passaggio sull’aereo messo a sua disposizione per motivi di sicurezza. Così sarebbe dovuto avvenire anche il 23 maggio, se il destino non avesse deciso altrimenti. In origine, infatti, il programma prevedeva che partissimo venerdì 22, ma, intorno alle 14 di quel giorno, Giovanni mi chiamò per avvertirmi che la partenza era stata spostata al giorno dopo per aspettare sua moglie Francesca, la quale nella mattinata di sabato doveva partecipare a una riunione, convocata all’ultimo momento dal presidente della commissione d’esame per uditori giudiziari, di cui faceva parte. Risposi a Falcone che lo ringraziavo, ma che se fossi riuscito a trovare un posto su un aereo di linea sarei partito prima: il caso volle che riuscissi a conquistare l’ultimo posto disponibile, incerto fino al momento dell’imbarco, in quanto riservato ai parlamentari.Conservo ancora oggi il tagliando di quel check-in: imbarco alle ore 19.40 del 22 maggio, posto 1 L. Non ci sono parole per descrivere l’immenso dolore che provai quando, il giorno dopo, a casa, appresi dell’odioso e feroce attentato alla vita del mio caro amico e collega. Fui pervaso da un senso di incredulità, di nausea, di vuoto, di rabbia. Gridai più volte: vigliacchi, vigliacchi, assassini, assassini, maledetti, accompagnando queste parole con pugni sul muro. La tv aveva detto che ancora non era morto e nel recarmi all’ospedale civico farfugliavo: Giovanni hai resistito a tante avversità, a tante delegittimazioni, a tante prove, rimanendo ben saldo al timone della tua vita, della tua missione, non ci abbandonare, dai.., dai che ce la fai. Purtroppo, quando arrivai, dopo minuti di attesa che sembravano un’eternità, la notizia che non c’era più niente da fare, che ogni speranza era svanita. Dinanzi alle cinque bare rivestite del tricolore, delle toghe e dei berretti degli agenti, giurai che la loro morte non sarebbe stata vana. Paolo Borsellino, che aveva condiviso con lui tanti momenti di lavoro e di vita privata e che, sebbene moralmente distrutto, si assunse il pesante fardello di proseguirne l’opera con la chiara consapevolezza che ne avrebbe condiviso il destino. Quando, a meno di due mesi, il 19 luglio, l’autobomba lasciata in via d’Amelio, sotto la casa di sua madre, dilaniò le membra di Borsellino, mi trovavo a Roma e mi recai immediatamente a Palermo insieme al ministro Martelli. Dopo la notte passata in prefettura con i più alti vertici dello Stato, conclusasi con l’immediato trasferimento a Pianosa e all’Asinara dei detenuti dell’Ucciardone, ebbi il compito di aspettare a Roma Fiammetta, la figlia di Borsellino, che doveva rientrare dalla Thailandia, ove si trovava in vacanza con amici di famiglia, per accompagnarla al più presto, in tempo per i funerali, a Palermo. Quando alle prime luci di un’alba tinta di rosa sorvolammo la città, il suo mare, i suoi dintorni, mi colse una struggente emozione ed insieme una rabbia infinita, nel pensare come tanta bellezza potesse sprigionare tanta violenza, tanto male, tanti lutti, tanto sangue. Ancora ho negli occhi e nella mente, in chiesa, durante i funerali, la rivolta, il tentativo di aggressione fisica dei rappresentanti delle istituzioni da parte di cittadini esasperati, assetati di giustizia. Cosa è cambiato oggi? Certo, tanti passi avanti si sono fatti: la conoscenza del fenomeno mafioso è completa, rispetto a quando se ne negava addirittura l’esistenza; la repressione non ha mai avuto soluzione di continuità, i capi sono quasi tutti in carcere con fine pena: mai!!! Gli arresti dei latitanti vengono salutati da ovazioni pubbliche da stadio, senza paura. Purtroppo però ancora la guerra non è vinta. Esistono ancora oggi poteri opprimenti, che impongono il pizzo, che limitano la libertà economica e l’iniziativa imprenditoriale. La domanda di legalità registra alti e bassi, che oscillano tra le madri che chiedono di intervenire per salvare i loro figli dalla droga ed interi quartieri che cercano di evitare l’arresto degli spacciatori; tra le voci dei bambini che dalle scuole invocano il poliziotto di quartiere e la sempre più ampia diffusione, in tempi di crisi economica, dell’usura e del traffico di stupefacenti a strati sociali mai interessati. Oggi siamo noi adulti che abbiamo la responsabilità della memoria. I ragazzi di oggi all’epoca delle stragi di Falcone e Borsellino, (sono passati 18 anni) erano dei bambini o non erano nati.