Fra gli orrori europei del secolo scorso, è stato quello di portata più vasta in tempo di pace. Eppure, il Grande Terrore staliniano perpetrato fra l’agosto 1937 e il novembre 1938 ha rivelato al mondo i suoi veri tratti solo con l’avvento della Perestrojka. Grazie all’apertura degli archivi e a un mosaico di testimonianze, si è compreso quanto macabramente eufemistica fosse la nozione di “purghe”, ancor oggi ripresa nei manuali. Le stime più attendibili sono raggelanti: in sedici mesi, l’Unione Sovietica fu amputata dal regime dell’un per cento della propria popolazione dell’epoca. Ovvero, 750mila individui arrestati con ogni pretesto, torturati, condannati a morte con sentenze mai rivelate ai familiari, abbattuti con una pallottola alla nuca, o a colpi di martello o di grosse pietre, o per strangolamento. Poi inceneriti, oppure occultati in fosse comuni. Parallelamente, furono 800mila i condannati a lavori forzati che si prolungarono ben oltre il decennio annunciato inizialmente. Solo in circa 100mila sopravvissero fino alle liberazioni, cominciate nel 1954. Le “operazioni segrete di massa” furono lanciate esattamente il 30 luglio 1937 da un ordine di Stalin registrato con le cifre 00447. Secondo lo storico franco-russo Nicolas Werth i gerarchi informati dell’intero processo di sterminio non superarono mai i duecento. Sulla scena interna e internazionale, i “processi di Mosca” contro la “vecchia guardia leninista”, accuratamente teatralizzati dal regime fra il 1936 e il 1938, funsero da efficace copertura al massacro segreto. Fra le campagne di sterminio, quelle “nazionali” presero localmente la fisionomia del genocidio, come l’Operazione polacca, che annientò 150mila russo-polacchi, un quinto del totale. Fra gli altri gruppi nazionali concentrati soprattutto nelle zone di frontiera, finirono nel mirino ebrei, tedeschi, lettoni, estoni, finlandesi, rumeni, greci. A livello civile, fra i “gruppi a rischio”, fu stritolato senza pietà il novanta per cento del clero, accanto ai senzatetto e ai nomadi. Numeri tanto rotondi non lasciano più dubbi. Fra le scoperte agghiaccianti di storici come il britannico Robert Conquest figurano le quote di vittime prefissate in ogni zona amministrativa. Negli ultimi anni, dalla fosca selva di carte, mappe e cifre dell’orrore, ritrovata soprattutto negli archivi dell’ex commissariato di Stato che includeva la polizia politica (Nkvd), sono riemersi pure tanti scatti in bianco e nero. Quelli con i volti delle vittime arrestate nel distretto moscovita, l’unico in cui le autorità disponevano di apparecchi fotografici. I ritratti servirono soprattutto al riconoscimento, al momento dell’esecuzione, dei presunti “agenti controrivoluzionari” e “nemici del popolo”. Ma quegli occhi, con la loro eloquenza e forza di documento storico, bruciano oggi lo sguardo. E adesso una selezione impressionante di quei volti di uomini e donne in trappola è finalmente accessibile pure al grande pubblico dell’Europa occidentale, grazie alla pubblicazione in Francia del volume
La Grande Terreur en Urss, 1937-1938 (edizioni Noir sur blanc), a cura del fotografo e giornalista polacco Tomasz Kizny, affiancato dalla giornalista francese Dominique Roynette. Fra gli altri autori dei testi esplicativi, figurano il russo Arsenij Roginskij, presidente dell’associazione Memorial fondata dal premio Nobel Andrej Sacharov, Nicolas Werth e il critico fotografico Christian Caujolle.Presi appena dopo gli arresti, gli scatti precedettero spesso di poco le esecuzioni. E – come notano diversi autori – la dinamica fulminea dello sterminio sembra aver lasciato sui volti dei condannati, oltre al terrore e alla rassegnazione, pure una profonda incomprensione kafkiana. A sessant’anni dalla morte di Stalin, gli sguardi intensi sembrano ancora chiedere: «Perché?». Lo stesso interrogativo, in fondo, al quale gli storici ammettono di aver risposto solo in parte. Se il movente immediato degli stermini ricorda le paranoie collettive orchestrate pure da altri regimi totalitari, l’ampiezza presa dal Grande Terrore sfida ogni razionalità. Fu Conquest a sostenere per primo che «la caratteristica di Stalin era proprio di fare ciò che era stato giudicato moralmente e fisicamente inconcepibile».Fra i sessantun ritratti in bianco e nero riprodotti in grande formato, c’è pure quello di Vladimir Nilovic Volkov, prete ortodosso a Islavskoje, villaggio della regione moscovita: nato nel 1878, arrestato il 27 febbraio 1938, condannato a morte il 7 marzo, assassinato il 25 marzo. Nonostante il dramma, lo sguardo profondo e la barba bianca, folta e perfettamente simmetrica, conservano una dignitosa e misteriosa ieraticità. Gli occhi più giovani sono invece quelli leggermente in diagonale, in una posa ancora infantile, del diciassettenne Ivan, “senzatetto”, assassinato il 14 marzo 1938, all’indomani dello scatto riprodotto.Le pagine dei diari di alcuni condannati, i freddi rapporti della polizia politica e molte testimonianze odierne di familiari delle vittime arricchiscono il volume. Analizzando il problema del rapporto estremamente ambiguo e parziale della Russia di oggi con questo passato, Roginskij si chiede: «In assenza di una memoria storica degna di questo nome, è forse possibile l’apparizione di un sistema normale di valori sociali, nel quale la vita, la libertà e la dignità umana siano assolutamente prioritarie rispetto agli interessi del potere di Stato?». Delle croci, spesso discrete, ricordano ormai la tragica costellazione di luoghi, soprattutto nella Russia europea e in Ucraina, dove sono state rinvenute le principali fosse comuni. Di tante altre, ancora introvabili, resta solo qualche ricordo cupo e urticante.