Una bandiera taglaata a pezzetti per non farla cadere in mano al nemico
Una bandiera con lo stemma sabaudo, tagliata in tanti quadratini e poi ricomposta alla fine del conflitto, con qualcuno mancante. Uno stratagemma che i militari italiani usavano, se fatti prigionieri, per evitare che il vessillo del reggimento finisse in mano nemica. Solo che, fatalmente, qualche quadratino andava perduto. Su uno c’è la dedica pietosa di una mamma che, avendo perso il figlio sul fronte, restituiva idealmente il suo pezzo di bandiera ritrovato addosso.
La Grande Guerra e il fattore umano. Al Vittoriano, al sacrario delle Bandiere sono in mostra le cartoline dei soldati dal fronte, un campionario illimitato e commovente di vite messe a repentaglio giovanissime dalla più grande follia che la mente dell’uomo sia stato in grado di inventare: la guerra. Furono ben quattro miliardi e mezzo - incredibile - quelle spedite dai militari italiani, uno strumento efficiente di comunicazione (anche grazie al centro di smistamento che era posto a Bologna) in grado di garantire performance nei tempi di consegna sconosciuti in epoca recente.
Lettere di prigionieri, un ufficiale di guerra scrive da Nagymegyer in Ungheria, lamentando con la madre che il pacco dei vestiti è arrivato, ma si aspettava altro, viveri soprattutto. Lettere dagli ospedali da campo con lo stemmino della Croce rossa. Ma il vero capolavoro, fra i 700 pezzi in mostra all’Altare della Patria sono i messaggi a matita nascosti sotto i francobolli. «Si parla che si partirà sul Carso, sono dolori...», scrive una militare a fine luglio del 1917 (a meno di tre mesi dalla disfatta di Caporetto) alla signora Faustina Pierrotti, verosimilmente sua mamma, che è a Fabbriche di Vallico, in provincia di Lucca. Lo stratagemma serve ad aggirare il timbro della censura che è ben visibile sui messaggi di maniera scritti nell’apposito spazio, mentre la cruda realtà con comunicazioni anche lunghe, a caratteri minuscoli e cesellati, veniva non di rado raccontata nei piccoli spazi del francobollo, meglio se due.
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«Mi trovo alla sinistra di Asiago. La posizione dove stavo prima è vicino al nemico e anche dove era Giulio. Parte del personale del gruppo è ammalato con gli occhi a causa del gas che lanciano a mezzo di proiettili», scrive Felice da Ospedaletto Euganeo alla signorina Olga Imperlino, a Napoli, probabilmente la sua fidanzata, in un drammatico 12 ottobre, nell’imminenza della disfatta. È lo stesso militare che scrive di nuovo, un mese dopo, passata Caporetto, con tono più fiducioso: «...Partirò da qui appena avrò l’autorizzazione e continuerò le ricerche per trovare il mio comando. Mi auguro che questa volta ci riesco, poiché i comandi si sono riorganizzati».
Con l’avvicendamento alla guida dell’esercito fra Luigi Cadorna e Armando Diaz, dopo la ritirata e l’arruolamento del “ragazzi del ’99”, il fattore umano viene messo al centro e diventa fondamentale per sovvertire l’esito del conflitto. Migliora il rancio (viene introdotto, per esempio, il caffè), vengono istituite le biblioteche, si fa anche teatro e viene prescritto il massimo rispetto dei turni di riposo. Nei comandi, con la circolare del generale Gaetano Giardino del gennaio 1918, viene istituito un servizio informazione sul morale delle truppe e viene prescritto che «i comandi vengano informati degli inconvenienti, anche apparentemente trascurabili, che si verificano nei reparti». Preoccupa l’informazione di stampo socialista o anarchica e la sua circolazione al fronte. «Il miglior sistema per combattere la propaganda antibellica è quello di eliminare per quanto possibile le cause di malcontento», scrive Giardino. In una circolare ai prefetti anche il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando chiede di stare «attenti alla propaganda pacifista e alle dichiarazioni negative in merito alle truppe alleate».
A metà fra informazione e propaganda proliferano i “giornali di trincea” che arruolano grandi firme, da Gabriele D’Annunzio a Curzio Malaparte, da Giuseppe Ungaretti a Massimo Bontempelli. Il capostipite è La trincea, diretto Renato Simoni, critico teatrale e commediografo. Nasce un vero e proprio nuovo filone di satira letteraria e fumettistica, e anche le cartoline diventano uno strumento per diffondere buonumore con vignette che irridono al valore e al temperamento del nemico. Una storia che gli italiani hanno riscoperto in questi anni del Centenario come “contemporanea”. «Più che la storia tante persone vengono qui a ricercare la loro vita», racconta il colonnello Giovanni Greco, direttore del sacrario delle bandiere. Famiglie intere, nonni con i nipoti per mano, vengono per rinnovare i ricordi vivi della loro tradizione. «Un signore è venuto a cercare il vessillo che suo padre aveva riportato indietro dal fronte. Glielo abbiamo mostrato e lui lo ha stretto a sé come un cimelio, scoppiando in lacrime».
La risposta del pubblico è andata oltre le più rosee previsioni: «Attraverso le cartoline i giovani oggi possono entrare in contatto col vissuto di questi loro coetanei che si sono sacrificati per la patria», dice il generale Gerardo Restaino, comandante del Raggruppamento autonomo di Difesa da cui dipende tutta la monumentale struttura museale del Vittoriano.
I numeri, in chiusura delle celebrazioni del Centenario, sono davvero impressionanti. Gli ingressi, col dato di ottobre (che ha registrato oltre 60 mila presenze, 73 mila in settembre) hanno superato il milione. Quasi mezzo milione dall’inizio dell’anno. Ancora ieri, in vista della ricorrenza di oggi, sono stati calcolati oltre tremila ingressi. Presenze conteggiate per difetto, tenendo fuori le scolaresche che entrano senza essere registrate. Si calcola che circa un milione e mezzo di persone si siano avvicinate alla memoria della Grande guerra, l’ultima fatta interamente da uomini. Uno spettro da allontanare il più possibile, eppure più vicino che mai.