Un'immagine della ritirata di Caporetto. Vescovi e sacerdoti rimasero
Se dell’opera dei cappellani militari nella Grande Guerra si è ampiamente parlato in questi anni di celebrazione di centenario del primo conflitto mondiale, molto di meno è stata ricordata l’opera dei religiosi delle zone prossime al fronte, tacciati di «disfattismo» e di «deprimere lo spirito pubblico», che, però, dopo Caporetto, mentre le autorità del Regno fuggivano, rimasero al proprio posto per aiutare, assistere, consigliare.
Daniele Ceschin, esperto di storia del movimento cattolico e autore di L’Italia del Piave. L’ultimo anno della Grande Guerra (Salerno) ci ha spiegato: «La Chiesa fu l’unica istituzione che resse l’urto dell’occupazione militare austro-ungarica. I parroci svolsero un ruolo di "supplenza" che venne letta dai sindaci "esuli in Italia" come una forma di collaborazionismo con il nemico, ma che altro non fu che il tentativo di gestire una situazione eccezionale e di alleviare le sofferenze dei civili».
Emilio Franzina, ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Verona e autore del recente Al caleidoscopio della Gran Guerra (Cosmo Iannone editore), continua: «Il tema dei preti che rimasero nelle loro parrocchie è stato poco trattato. I primi libri che ne raccontarono la storia, come quello del 1938 di Carlo Trabucco (Preti d’oltre Piave), lo fecero in un’ottica apologetica della causa bellica nazionale attingendo alle testimonianze dirette di alcuni protagonisti come don Michele Martina che supplì addirittura il sindaco di San Stino di Livenza per un anno».
Don Carlo Noè, parroco a Sant’Elena di Lughignano, in provincia di Treviso, venne accusato di aver creato «un pericoloso desiderio di pace», parlando con le madri e incitandole a dissuadere i figli dall’andare al fronte. Stessa «opera nefasta» veniva fatta a Gambarare di Mira, in provincia di Venezia, da don Giovanni Rizzotto che aveva consigliato alle donne di non partecipare ai lavori di difesa, mentre don Attilio Adreatti, parroco di Paese, nel trevigiano, rimpiangeva pubblicamente che i potenti fossero rimasti sordi all’appello del Papa contro «l’inutile strage».
Diversi furono i richiami militari e della gerarchia ecclesiastica a questi sacerdoti. Ma, quando arrivò l’invasione, questi "preti disfattisti" non fuggirono, spesso sull’esempio dei propri vescovi. Come monsignor Eugenio Beccegato vescovo di Ceneda, monsignor Giosuè Cattarossi vescovo di Feltre e Belluno e monsignor Andrea Giacinto Longhin vescovo di Treviso. Proprio Longhin, a cui Laura Fornasier ha dedicato Cosa tremenda fu sempre la guerra. L’opera del vescovo Longhin nel primo conflitto mondiale (Gaspari editore), dopo la disfatta di Caporetto, il 30 novembre 1917, scriveva al Santo Padre: «la città ribocca di profughi. Giungono a piedi, di notte, sotto il diluvio, e sono costretti a dormire all’aperto». Pochi giorni prima aveva ordinato ai suoi sacerdoti di rimanere «al proprio posto».
Per meglio comprendere la situazione che si venne a creare, basti pensare che, addirittura, il Prefetto di Treviso emanò un decreto grazie a cui i parroci avevano la competenza di sostituire gli agenti del Comune assenti.
Padre Giovanni Simonato, economo spirituale di Colbertaldo, si chiese dove si fossero rifugiati «certi signori che avevano sempre gridato "Viva la guerra"...», si rispondeva: «è facile immaginarlo: oltre il Piave!». Per assistere le migliaia di sfollati, su iniziativa di padre Agostino Gemelli, padre Giovanni Semeria e don Giovanni Minzoni, venne creato il Comitato per l’assistenza alle persone di passaggio.
Quello dell’occupazione fu un periodo cupo in cui era fatto, addirittura, divieto di cantare e suonare le campane. Nei diari e nelle relazioni che i sacerdoti inviarono alla Reale commissione di inchiesta si possono leggere cronache puntuali di quei giorni tragici. Don Andrea Marcon, parroco di Alleghe, annotava che i soldati austroungarici, al loro arrivo: «saccheggiarono tutto, incutendo il terrore».
Nella chiesetta di Santa Giuliana, ad esempio, «le truppe germaniche fecero immondezze sull’altare» trasformandola in «una pubblica latrina», mentre nella chiesetta del Battistero di Castion spezzarono la statua di San Giovanni, «lordando con sterco una pila dell’acqua benedetta». E poi le biblioteche e gli archivi razziati, bruciati. La biblioteca Lolliniana di Belluno fu interamente “deportata”.
I parroci si opposero, per quel che poterono. Come ricordato in La montagna bellunese durante l’occupazione austroungarica del 1917-1918. Le relazioni ufficiali di sindaci e parroci a cura di Silvia Comin (Istituto Bellunese di Ricerche Sociali e culturali), i preti del bellunese rinunciarono a ogni diritto ed emolumento come protesta contro il trattamento inflitto alla popolazione. Don Domenico Chenet, preposto di Cencenighe, evitò che il Comando locale deportasse le operaie del paese in Austria. Don Mansueto Resenterra, parroco di San Vittore a Feltre, fu perquisito e minacciato di fucilazione perché accusato di detenere colombi viaggiatori che non furono mai trovati. E così, come scriverà don Giuseppe Da Corte, vicario della Cattedra di Belluno, «il clero divenne il peggior nemico dell’Austria».
Nei resoconti dei parroci troviamo poi le tragiche violenze sulle donne perpetrate dagli invasori (ma anche dai soldati del Regio esercito), argomento abbastanza sottaciuto da molta storiografia. Come annotava don Amedeo Marchet, parroco di Lamon, «i soldati soddisfacevano le proprie necessità corporali in pubblico. In varie case entrarono nottetempo stuprando le donne, anche davanti ai figli».
Le violenze erano molto frequenti nelle zone rurali, in case isolate, dove – come da ordinanza militare – le porte dovevano rimanere sempre aperte. In molti casi le donne che scendevano dalla montagna in pianura subivano violenza più di una volta. I bambini che ne nascevano, quando non abortiti, rischiavano di essere uccisi o abbandonati. E proprio per questi “figli della colpa”, nel dicembre 1918, don Celso Costantini fondò a Portogruaro un Ospizio dei figli della guerra, dedicato a San Filippo Neri.
Sempre grazie ai parroci abbiamo testimonianze della grande fame subita dalle popolazioni del nord est mentre gli invasori davano abbondanti razioni di cereali ai loro cavalli. Don Carlo de Nard ricorderà che, in quei mesi, «le genti del Piave e del Cadore sembravano larve ambulanti». Nel Natale del 1917 i lattanti morivano di inedia, destino comune ai vecchi. Anche le giovani donne, dopo giorni in cui erano riuscite a cibarsi di sola erba, spiravano.
Un anno dopo, il 24 dicembre, il parroco Zoppè di Cadore Angelo Santin, 24 anni, nella sua relazione, ricordava: «Questa parrocchia, coronata e nascosta da aspre cime, non vide mai comparire la soldatesca brutale. Però un martirio incessante le si rovesciò addosso durante tutto il periodo dell’invasione: la fame. Per allontanare questo spettro, anche fanciulli e vecchi incominciarono viaggi lugubri, che mi pare non trovino riscontro neppure nel più buio Medio Evo. In essi ebbe campo di manifestarsi la feroce cannibalesca dei nemici e la pazienza eroica degli straziati».