La cattiva notizia è che la macchina si è rotta e ormai non può più essere aggiustata. Come sempre, però, c’è anche una notizia buona: il nuovo modello avrà senz’altro più
valore del precedente. Ne è convinto Mauro Magatti, l’autorevole sociologo dell’Università cattolica che nel saggio
La grande contrazione (Feltrinelli, pagine 352, euro 25,00, da oggi in libreria) si misura con le ragioni più profonde dell’attuale crisi. «Che non è soltanto economico-finanziaria – avverte lo studioso –, ma essenzialmente culturale. Anzi, spirituale». Il ragionamento prende le mosse dal punto esatto in cui, nel 2009, si era interrotta la riflessione di
Libertà immaginaria, il libro in cui Magatti metteva in discussione l’apparato del «capitalismo tecno-nichilista», l’ideologia pratica alla quale va ricondotto l’appiattimento della società contemporanea. «Allora però la crisi era appena incominciata e ci si poteva ancora illudere che si trattasse di una turbolenza passeggera – aggiunge –. Oggi sappiamo che stiamo attraversando una fase di transizione, sulla cui durata è impossibile avanzare previsioni, ma sul cui esito è necessario interrogarsi».
E come andrà a finire? Passeremo dalla crescita incontrollata alla decrescita felice?«Non mi sembra una prospettiva convincente – risponde Magatti –. Al contrario, è più opportuno immaginare le condizioni che, da qui in poi, sappiano sostenere un diverso tipo di crescita. Per fare questo, però, bisogna tornare all’origine della crisi, che coincide con l’esperienza, finora inedita, della libertà di massa».
In che senso?«Negli ultimi trent’anni la stragrande maggioranza della popolazione occidentale si è trovata in una situazione mai verificatasi prima: benessere più che ragionevole, democrazia diffusa, pluralismo altrimenti inimmaginabile. Oggi, se guardiamo ai punti di contatto fra la crisi e gli atteggiamenti individuali, ci accorgiamo di come questa condizione sia stata vissuta in modo ingenuo, potremmo dire adolescenziale. L’espansione economica incontrollata è andata di pari passo con un’espansione del sé altrettanto incapace di accettare il senso del limite. Da qui un continuo slegamento, una continua rottura dei legami in ogni contesto, dalla famiglia alla gestione delle risorse umane. La brusca contrazione che il sistema ha subìto a partire dal 2008 ci offre l’occasione di ripensare radicalmente il processo».
Ma indietro non si torna, giusto?«Sarebbe del tutto inutile vagheggiare una ricomposizione degli equilibri che hanno preceduto la globalizzazione. La strada da seguire, a mio parere, va nella direzione di una “seconda globalizzazione”, in cui tutto dovrà essere contrattato e negoziato con estrema attenzione. Sul tappeto ci sono questioni di natura drammaticamente pratica, come lo smaltimento dell’eccesso di debito che si è accumulato in ogni settore. Ma è altrettanto importante ragionare in termini di innovazione, sapendo che la logica del consumo fine a se stesso è ormai tramontata. È venuto il momento di affidarsi a criteri di valore».
Possiamo esemplificare?«Nessun imprenditore, in una fase come questa, può illudersi di inseguire la chimera di un profitto sempre crescente. Se davvero vuole fare il suo mestiere, deve porsi l’obiettivo di produrre qualcosa che sorprenda per creatività, utilità, bellezza. Questi, fra l’altro, sono i campi in cui l’Occidente riesce ancora a rimanere competitivo rispetto ai Paesi emergenti, ormai imbattibili sul piano della mera produttività. Ecco, il valore espresso da un’imprenditorialità innovativa non è misurabile su una scala solamente economica: è, per l’appunto, un valore spirituale».
Accennava alla necessità di negoziare: questo significa che saremo meno liberi?«No, saremo veramente liberi. La stagione della libertà di massa, lo ripeto, ha avuto un carattere adolescenziale, transitorio. Adesso si apre davanti a noi l’opportunità di vivere questa dimensione in maniera adulta, conquistando la consapevolezza di come il limite non sia una costrizione proveniente dall’esterno. In questa visione, che mi piace definire “la libertà dei liberi”, la pretesa di vivere senza legami cede il passo alla volontà di stringere nuove alleanze».
Anche il cardinale Bagnasco, nella sua prolusione all’Assemblea generale della Cei, insiste sulla «cultura del legame»...«Sarà la caratteristica principale della seconda globalizzazione, ne sono convinto. Vale per l’Europa, che deve ripensare il proprio ruolo in termini di un’alleanza che vada a vantaggio di tutti gli Stati e non sia solo un baluardo per le economie più forti. Ma vale anche per molte questioni interne al nostro Paese, come il dibattito sull’articolo 18, rispetto al quale il realismo dovrebbe portarci ad ammettere che lo scenario degli anni Settanta non può più essere riproposto. Non per questo, però, sono cambiati i valori di tutela e di eguaglianza fissati da quella norma».
E la religione?«Una società appiattita non porta beneficio a nessuno. Al di là delle convinzioni personali, il riconoscimento collettivo della dimensione religiosa contribuisce a rendere più vivo il paesaggio pubblico, imprimendogli una ricchezza spirituale da cui anche i non credenti traggono vantaggio».