Lewis Wickes Hine, “Una famiglia di immigrati italiani mentre lascia Ellis Island a bordo di un traghetto”, New York 1905 - Library of Congress
«Oggi ci chiamano “dago”, oggi ci rimproverano la nostra poca pulizia, il frequente uso del coltello». Ma domani «le centinaia di dollari messi da parte frugando nei bauli o fabbricando sedie da lustrascarpe o vendendo frutta col carretto serviranno un giorno a educare i figli, a lanciarli in questo mondo americano dove noi, per essere giunti troppo tardi, non entreremo mai». Così Camillo Cianfarra fa dire al protagonista del suo romanzo del 1904 Il diario di un emigrante. “Dago” è un termine dispregiativo di etimo incerto – forse da dagger, coltello - che i nordamericani indirizzavano ai latini, soprattutto agli italiani.
Il passo - tratto dall’opera di Cianfarra, ai tempi famoso giornalista abruzzese emigrato negli Usa - viene rispolverato da Marco Palmieri e Mario Avagliano nel saggio Italiani d’America. La grande emigrazione negli Stati Uniti (1870-1940) in libreria da oggi per Il Mulino (pagine 552, euro 32,00). Ed è un brano che dà conto sì degli insulti e della discriminazione che tanti nostri espatriati hanno dovuto subire a tutte le latitudini. Ma è proiettato anche al futuro, prospettando quello che oggi è realtà: nel censimento del 2010 gli americani di ascendenza italiana sono poco più di 17 milioni e sono parte integrante della vita sociale, economica e politica del Paese dalla Star-Spangled Banner, la bandiera dalle cinquanta stelle e tredici strisce.
Passato e futuro vissuti nel sogno americano, dunque. I due autori, che hanno al loro attivo molti saggi dedicati al Novecento e alla Seconda guerra mondiale, puntano il loro sguardo a un fenomeno che ha avuto inizio alla fine dell’Ottocento. Eccetto i casi particolari (come gli italiani che presero parte alla Guerra di secessione) il fenomeno dell’emigrazione dalla Penisola negli Usa è tardivo rispetto ai Paesi nord-europei, dai quali le partenze erano iniziate già in età moderna e alla fine della guerre napoleoniche. Tra il 1876 e il 1988 si calcola che siano stati in totale circa 27 milioni gli italiani che hanno lasciato la loro terra, la metà dei quali - 13 milioni – sono ritornati o perché non ammessi o per il fallimento della loro esperienza o, infine, per il desiderio di tornare in patria. La maggior parte uomini (81%) e tra loro molti i giovani (il 16% aveva meno di 14 anni). Quattro furono le fasi in cui questo esodo (le cui cause, è noto, risalgono all’arretratezza e povertà di gran parte dell’Italia postunitaria) si sviluppò. La prima 1876 al 1900, seguita dalla Great emigration del Novecento, che fino al 1915 registrò secondo le statistiche ufficiali 600mila partenze all’anno per un totale di 14 milioni. Dei 9 milioni che scelsero luoghi Oltreoceano, 4 milioni andarono negli Usa, inizialmente meta soprattutto dei settentrionali, poi sempre più dei meridionali. Con la grande guerra ci fu una stasi. Successivamente emerse un fenomeno nuovo, l’emigrazione degli oppositori al fascismo e degli ebrei. Infine, l’emigrazione post 1945 che ricomincia «in modo imponente». Paradossalmente una vicenda trascurata fino a tempi recenti. «Pur essendo uno dei fenomeni più rilevanti della storia postunitaria si è teso a dimenticare quanto l’emigrazione abbia inciso sulla società, la demografia, la cultura e l’economia nazionale», scrivono gli autori.
Oltre alle statistiche e alla composizione sociale di questa fiumana sempre più impetuosa, gli autori si soffermano su fenomeni culturali e religiosi, usando lo scandaglio tra le lettere dei migranti dalla “Merica”, diari, documenti, pubblicazioni, giornali, inchieste, canzoni, film. Oltre naturalmente al pane degli storici: gli archivi. Sia italiani - dai musei e ai centri specializzati sull’emigrazione, agli archivi di scritture popolari come Genova e Pieve Santo Stefano - sia americani, come le numerose raccolte di storia orale conservate nelle università e alla Ellis Island Foundation, l’istituzione che governa la porta d’America l’isola nella baia di New York su cui campeggi ala Statua della Libertà e dove si svolgevano le visite mediche per l’ingresso.
I quindici capitoli del libro conducono il lettore insieme ai migranti dalla partenza all’approdo, ricostruendo le condizioni di viaggio assai diverse secondo la classe sociale e che spesso potevano costare anche la vita. I riflettori si spostano poi sull’impatto che i migranti sperimentano una volta entrati nel Nuovo Mondo, dove grande è la fame di mano d’opera, trovandosi ad affrontare condizioni di lavoro durissime, con molti incidenti. Oltre agli uomini, non erano risparmiati le donne e i minori. Spesso partiti per il fenomeno della chain migration (la catena di chiamata da amici e parenti) per ambientarsi gli italiani d’America si organizzarono in quartieri etnici con reti sociali e compagnie di mutuo soccorso, le celebri Little Italies. Lo sguardo va poi al ruolo delle rimesse economiche e quindi al fatto che l’Italia deve molto a questi connazionali che hanno cercato e a volte fatto fortuna. Altri capitoli vertono sul periodo fascista e sui fenomeni della Mano nera e della mafia. Gli ultimi due sono dedicati al conflitto intergenerazionale, tra i valori dei padri e quelli dei figli, i quali aderiscono sempre di più a un american way of life, improntato a una libertà inconcepibile per i genitori. E, infine, alle storie di quelli che si sono integrati e hanno raggiunto l’eccellenza in campi non solo sociali, politici, economici, ma anche letterari, artistici e sportivi. Come ha scritto - in un italiano incerto - nelle sue memorie il calabrese Antonio Margariti: «Gl’Italiani che son venuti dal paese col sacco al collo rozzi e inalfabeti i loro figlie son divenuti Dottori Ingegnere avvocati oggi gl’Italiani fanno parti in tutti le rame e Lavita di questa Grande Nazione». E se ce l’abbiamo fatta noi quando andavamo dagli altri, perché non dare una chance agli altri che vengono da noi?