Poche decine di metri separano, in piazza Fontana, l’arcivescovado di Milano dal palazzo dell’allora Banca nazionale dell’agricoltura che soffrì con sedici vittime e decine di feriti, il 12 dicembre 1969, l’inizio di quel tragico
Romanzo di una strage che recentemente il regista Marco Tullio Giordana ha portato sulle scene rompendo con la fiction una lunga stagione di silenzi, di complicità, anche istituzionali, di terrori e di orrori, di giustizia non fatta da chi doveva garantirla, di superba impunità dei presunti autori, e che nei giorni scorsi, si è come ripetuto con l’assoluzione degli imputati di un’altra strage, quella di Brescia del maggio 1974. Con piazza Fontana «Milano fu macchiata (come e più di altre città d’Italia) da enormi chiazze di sangue di gente sì in divisa, ma anche di gente semplice e comune, soprattutto giovani di varia matrice culturale e di persone inermi» Lo scrive don Francantonio Bernasconi, responsabile della parrocchia di santa Margherita a Caronno Pertusella in uno smilzo quaderno che raccoglie 23 tra omelie, messaggi e testi dell’arcivescovo di Milano, il cardinale Giovanni Colombo (nato 110 anni fa a Caronno e del quale ricorre il ventennale della morte), su questi anni non solo di piombo ma anche di feroci delitti. «Tristissimi episodi mi riempiono di sgomento e di amarezza. Ancora ferimenti e agguati mortali. Ancora l’assassinio. Questa nostra città è irriconoscibile », affermerà nell’aprile 1976 ai funerali di altre due vittime dell’odio di parte. È una sorta di bilancio che sembra non lasciare spazio alla speranza. All’indomani della strage di piazza Fontana, l’arcivescovo aveva detto: «A quest’ora grave e sacra meglio si addirebbe il silenzio…». Ma al pastore che bene aveva compreso e fatta sua la lezione di Ambrogio questo comportamento, intriso dalla compassione evangelica. Non bastava. «Le armi del vescovo sono le lacrime e la preghiera – affermava in occasione dei funerali del commissario Luigi Calabresi, il 20 maggio 1972 – Il suo irrinunciabile compito di guida spirituale gli impone di non tacere. Gli impone di dare voce a questa muta bara… In nome del Vangelo, di cui siamo indegni ma autentici annunciatori, dobbiamo incessantemente deplorare e condannare i metodi della violenza, da qualsiasi parte provengano, sotto qualsiasi forma si presentino…». Attentati, delitti, politici e non, uccisioni si susseguivano a Milano e anche altrove. Gli anni dell’episcopato di Colombo sono quelli della strage di piazza della Loggia a Brescia, del treno "Italicus" sugli Appennini bolognesi, e poi , in un susseguirsi dei tanti funerali e delle tante commemorazioni, del rapimento e uccisione di Aldo Moro. L’arcivescovo si sofferma sul messaggio dello statista pugliese: «È quello della sua vita civilmente integerrima, cristianamente esemplare, politicamente costruttiva, che ha saputo affrontare la morte nella segregazione più brutale e nell’incertezza più disumana». E aggiungeva, di fronte a un terrorismo che sembrava inafferrabile e invincibile: «Tutto si può compromettere anche presso le società più salde, quando non si sta attenti agli inizi e si lasciano correre permissivamente quelle violazioni che sembrano modeste. Anche il male ha le sue spirali funeste». «Il vescovo non può tacere» ripete in più momenti del suo episcopato. «Interrompe la sua preghiera e parla… perché è il testimone di un Vangelo di pace nell’ora atroce della violenza». Ma le sue parole scavano nelle pieghe più profonde di una società che sembra aver perso valori, senso della legalità, dignità, doveri. e con ampi settori di questa società in crisi che mostravano troppa indulgenza e comprensione. Colombo parla esplicitamente il 17 maggio 1977 nella chiesa della Bicocca in occasione dei funerali dell’agente Antonino Custrà: «Quando si aggiravano muniti di armi improprie, ma non per questo innocue, vennero tollerati quasi fossero solo ragazzi un po’ più vivaci e aggressivi degli altri. Ora possiedono efficienti, moderni, costosi strumenti di morte. La loro criminosa audacia ci rende trepidi e pensosi… Ma per creare un mondo nuovo e migliore, occorrono uomini nuovi». Ai cinquemila giovani che il 14 aprile 1973 concludevano il loro cammino penitenziale nel Duomo di Milano dice «La coscienza ferita parla anche con la mia voce di vescovo… Se la nostra parola potesse giungere a tutti i responsabili, anche ai più alti, diremmo loro che non è più lecito distrarre in contese di potere tra partiti e tra correnti politiche le attenzioni che devono essere rivolte a risolvere problemi estremamente gravi e urgenti. Il Paese intero, e soprattutto Milano aspetta». Una richiesta che l’arcivescovo rinnovava ai funerali del giudice Emilio Alessandrini, nel gennaio 1979: «Ci sia concesso di avere uno Stato dove per gli onesti non sia impresa così rischiosa vivere e operare e dove per i criminali non sia così agevole colpire e sparire». Dieci anni dopo la strage di piazza Fontana, il cardinale Colombo parla ancora nel suo Duomo. Ricorda le vittime, «gente buona, gente laboriosa dei campi, che non conosceva l’atroce odio delle parti… dieci anni sono passati e niente è cambiato se non in peggio… Quelle sedici bare, che quasi increduli guardavamo come un traguardo, ultimo e insuperabile del crimine e della follia, sono state l’inizio di una tragedia nazionale che sembra non avere più fine». L’arcivescovo continua a non tacere, anche se sta per lasciare la diocesi (gli subentrerà Martini). Dice una sua preghiera «Noi ti affidiamo, o Padre, le sorti del nostro Paese/ fa che nella coscienza dei suoi cittadini e nelle leggi/ sia sempre onorata la dignità dell’uomo/ tua creatura e tua immagine vivente».